“Nell’ultimo mese, i medici mi hanno detto che sarebbe morto. Non sapevo se dirglielo. Mi sono confrontata con tutti e cinque i figli. Solo con loro, non l’ho detto a nessun altro, neanche a mia madre. Insieme, abbiamo deciso di non dirglielo, per non togliergli quel lumicino di speranza”. Questo uno dei passaggi della toccante intervista di Arianna Rapaccioni, moglie di Sinisa Mihajlovic, al Corriere della Sera ad un anno esatto dalla scomparsa dell’ex giocatore e allenatore di Serie A.
“Solo in quest’ultimo mese sto prendendo coscienza del fatto che mio marito non c’è più – ha spiegato – I primi mesi, non capivo più nulla, stavo a Roma, dove mi ero stabilita quando i figli hanno iniziato le superiori, e avevo come la sensazione che Siniša fosse ancora vivo e stesse a Bologna ad allenare la squadra”.
“Mio marito aveva la leucemia ma non pensavo potesse morire – ha continuato Arianna Rapaccioni -. Poi, certo, non sono stupida e la sua era una malattia importante, ma anche lui negava l’evidenza. Se qualcuno gli chiedeva cos’aveva, diceva: amo’ che malattia ho? Mi chiamava così: amore. E io: hai la leucemia mieloide acuta. Siniša non leggeva i referti, non guardava su Internet, voleva solo sapere quali cure fare. Ha sperato fino all’ultimo di guarire. Ha lottato come un leone, ha fatto cure allucinanti, due trapianti, una cura sperimentale tostissima… Gli sono stata accanto negli ospedali per quattro anni. Credo che il mio stato shock dipenda anche dalla sofferenza vissuta insieme. Ricordo ancora i suoi occhi terrorizzati quando ci hanno detto che aveva una recidiva. Ricordo gli esami che andavano male. Ricordo il rito, tutte le mattine – per un periodo – di fare le analisi e aspettare i referti e, ogni volta, i globuli bianchi che risultavano anomali”.
Arianna ripercorre anche le ultime ore prima della morte di Sinisa: “Qualche giorno prima, si è svegliato con un principio di emorragia – ha sottolineato Arianna Rapaccioni – Gli ho prestato le prime cure come mi era stato insegnato, ho chiamato l’ambulanza, ma lui non voleva salirci, voleva andare in ospedale con le sue gambe. Per giorni, io e i figli gli siamo rimasti accanto a turno e la cosa struggente è che l’ultima notte, invece, eravamo tutti lì. I figli erano nella stanza accanto, c’ero io, sua madre, suo fratello con la moglie, il suo miglior amico, mia madre. Quando mi sono resa conto che il suo respiro è cambiato e che mancava poco, ho chiamato i ragazzi. Eravamo tutti in silenzio attorno a lui. Gli ho tenuto la mano, l’ho visto lottare col respiro sempre più pesante. Mi è venuto da dirgli: vai, non ti preoccupare, ai ragazzi ci penso io. Solo a quel punto è spirato”.