L’abbigliamento ben curato, la pettinatura impeccabile, il sorriso speso come forma di protezione nei momenti difficili nascondono bene un’anima da ‘duro’. Se è vero che l’immagine è tutto, Paulo Fonseca paga paradossalmente in parte anche un po’ della sua eleganza. Un ‘duro’ che non sembra tale passa più da ottuso che da sergente di ferro. E forse non è un caso che nelle sue due esperienze italiane, il tecnico nato in Mozambico e trasferitosi in Portogallo da bambino sia stato sostituito da due connazionali che il biglietto da visita di leader inflessibili ce l’hanno appiccicato sulla fronte: a Roma fu Josè Mourinho a prendere il suo posto alla scadenza del contratto, mentre a Milano è Sergio Conceicao a sostituirlo dopo l’esonero deciso dal Milan. E come nel più beffardo dei copioni, è proprio un passo falso contro la sua ex squadra ad essere decisivo per un licenziamento che ha tanto il sapore di disastro annunciato. Il Milan cambia e lo fa nell’ultimo appuntamento dell’anno, quando le sorti del campionato sembrano ormai compromesse almeno per la lotta al titolo. La squadra rossonera è ottava in classifica e ha 27 punti, con una gara da recuperare a Bologna, ma con una distanza dalla vetta (14 punti) troppo ampia per le ambizioni della società. Otto invece le lunghezze dalla Lazio quarta in classifica. Insomma, la proprietà americana (come era americana quella che decise di non rinnovargli il contratto a Roma) ha fretta e poca pazienza al punto da sconfessare la scelta che tanto aveva fatto storcere il naso ai tifosi in estate, quando sul mercato c’era un certo Antonio Conte, poi passato al Napoli.
GLI ERRORI
Paulo Fonseca paga quel che pagò a Roma. Un piazzamento di classifica lontano dalla top four, ovviamente. Ma anche una gestione del rapporto con i senatori del gruppo poco diplomatica, accompagnata da una comunicazione scarsamente incisiva che ne lascia spesso trasparire una falsa immagine di leader fragile all’interno dello spogliatoio. Una visione errata probabilmente, perché se lasciare fuori alcune star (Dzeko e Pedro a Roma, Leao e Theo a Milano) è spesso controproducente, è allo stesso tempo un sintomo di personalità. Fonseca ne ha tanta, ma quando non è accompagnata dai risultati, la personalità si trasforma inevitabilmente in ottusità agli occhi di chi giudica da fuori. “La leadership è importante, sono sempre molto diretto con i miei giocatori e a volte non è facile per loro accettare la mia verità”, disse nel 2021 in un’intervista a Dazn. A Roma ebbe problemi con Dzeko (che conobbe la tribuna e perse la fascia da capitano), mentre Pedro, già poco soddisfatto del suo minutaggio, venne sostituito contro lo Shakhtar per non aver “capito quello che volevo”. Un’origin story di quanto accaduto con Leao e Theo Hernandez. L’altro tema riguarda gli infortuni. Tra gli assenti contro la Roma c’erano Musah, Pulisic, Loftus-Cheek, Leao, Okafor e il lungodegente Florenzi. A loro si è aggiunto ora Chukwueze, costretto ad uscire nel secondo tempo per un problema muscolare. L’infermeria piena è un problema storico in casa Milan, ma il portoghese non è riuscito a trovare una soluzione.
IL RAPPORTO CON IBRAHIMOVIC
Tra Fonseca e Ibrahimovic la storia è breve, ma intensa. Giorno 17 Agosto, sessione trasferimenti in chiusura. Fonseca parla di “mercato per me chiuso”. Ibrahimovic dice altro e i fatti daranno ragione allo svedese visto l’arrivo di Abraham e la partenza di Saelemaekers (schierato titolare all’esordio): “L’allenatore fa l’allenatore, la società fa il resto. Il mercato chiude quando dico io che chiude”. Una puntualizzazione scontata, che forse scalfì la serenità interna al gruppo di lavoro. Ibra d’altronde è così: esuberante e accentratore. Fonseca è l’opposto: pacato e moderato, ma tutt’altro che timido (“La mia leadership non la ostento, non sono un attore”, disse). Ad ottobre, pubblicamente, il consulente di RedBird chiede a Fonseca di essere sé stesso, sottolineando però che “alcune cose si devono risolvere all’interno” perché “sono adulti, professionisti e devono prendersi le loro responsabilità”. Il tema è legato ovviamente alla gestione dei senatori, alla luce del cooling break di Roma con Theo Hernandez e Leao rimasti in disparte. Fonseca minimizza, ma nei mesi successivi tira in ballo i giocatori in due momenti chiave della stagione: l’autogestione sui rigori a Firenze (“Il nostro rigorista è Pulisic, non so perché i giocatori hanno cambiato idea. Gli ho parlato e ho detto che non deve succedere più”) e il post gara con la Stella Rossa (“Quando entriamo in una partita decisiva come questa e abbiamo questo tipo di atteggiamento, senza dare tutto per questa maglia, le cose sono difficili”). L’esito finale è il classico: il calciatore è un asset prezioso, l’allenatore lo è meno.
L’ULTIMA CONFERENZA BEFFARDA
Rimane però l’eleganza nei comportamenti (al netto di qualche protesta arbitrale sopra le righe, come quella di ieri che gli è costata l’espulsione). A Roma fece l’in bocca al lupo a Mourinho, annunciato a stagione in corso prima di una semifinale di Europa League. A Milano si è ritrovato ad ufficializzare l’esonero prima della società: “Tutto vero, sono fuori dal Milan, è la vita, ma ho dato tutto e ho la coscienza a posto”, le sue parole all’uscita da San Siro dopo aver tenuto una conferenza stampa nel corso della quale aveva confidato di sentirsi solido in panchina: “Se mi aspetto di allenare il Milan in Supercoppa? Posso aspettarmelo, perché non ho nessun segnale del contrario. Adesso vado a casa, con la mia famiglia e riguarderò la partita e mi preparerò per lavorare domani. Se ho paura di essere il sacrificato? Mai nella mia vita ho avuto paura di qualcosa nel calcio. La cosa più importante è avere la coscienza tranquilla, lavorare ed essere onesto con chi lavora con me e io ho la coscienza tranquilla per cui non ho paura”. Si sbagliava. E probabilmente meritava un addio diverso.