E’ un periodo difficile per l’Italia e per il mondo in generale, chiamato a combattere contro un nemico silenzioso e insidioso che sta mettendo in apprensione milioni di persone: il coronavirus ci tiene sotto scacco e anche lo sport ne risente. E’ un anno bisestile, questo vuol dire Europei di calcio e Olimpiadi. I primi, con tutta probabilità, verranno rinviati di un anno, i Giochi potrebbero essere spostati di alcune settimane, ma ogni decisione non potrà prescindere dai dati reali dell’avanzata del Covid-19. E’ una pagina tristissima per l’umanità, che di colpo sembra piombata agli anni bui della seconda guerra mondiale, in cui ogni evento fu sospeso e lo sport era l’ultima delle preoccupazioni. E il parallelismo con ottant’anni fa è tremendo: anche nel 1940 le Olimpiadi si sarebbero dovute disputare a Tokyo, lo scoppio della guerra tra Cina e Giappone costrinse il Cio a spostare l’edizione a Helsinki, in Finlandia, nel 1941, ma fu poi la volta di un nuovo conflitto bellico, stavolta di proporzioni devastanti, e si rimandò tutto a tempi migliori.
BERLINO TRA OWENS E LA VITTORIA AZZURRA – L’ultima Olimpiade prima della WWII, dunque, è quella di Berlino 1936. Ironia della sorte, a casa di Hitler, già in ascesa nel proprio paese e pronto a mettere sotto scacco il mondo intero nel giro di pochi anni. Era l’anno in cui iniziavano a riverberarsi in maniera concreta le politiche di discriminazione razziale e la rassegna a Cinque Cerchi sarebbe servita al Fuhrer anche come mezzo per la propaganda: tutto doveva essere perfetto, per certi versi lo fu, per altri meno. Fu l’edizione passata alla storia per l’incredibile umiliazione subita dalla Germania nazista, costretta a vedere un atleta di colore come Jesse Owens, statunitense di umilissime origini ma dall’innata velocità, vincere la medaglia d’oro nei 100 e 200 metri, staffetta e salto in lungo. E quei Giochi di ottantaquattro anni fa, spostando la nostra attenzione sull’Italia, riservarono il primo e tuttora ultimo successo della nazionale di calcio olimpica. Il Bel Paese era ancora un regno, Mussolini aveva ormai accentrato il proprio potere e si apprestava a divenire stampella della Germania. In campo sportivo, e più precisamente nel mondo del calcio, però, gli azzurri erano i dominatori incontrastati di quegli anni. Il Mondiale 1934 vinto tra le mura amiche, il bis nel 1938 in Francia. Nel mezzo – non vi erano ancora gli Europei – un’altra importante vittoria, per certi versi slegata da quelle iridate, arrivata nel torneo olimpico.
FEELING MANCATO – Dopo quel trionfo l’Italia e il calcio alle Olimpiadi – aperte attualmente alle squadre Under 23 – non hanno più trovato il giusto feeling: qualche piazzamento (da ricordare il bronzo del 2004 con Claudio Gentile in panchina) a far da contraltare a diverse mancate partecipazioni al torneo, anche in virtù della nascita degli Europei, che si stabilì fossero disputati poche settimane prima negli stessi anni, e successivamente della difficile coabitazione con la rassegna continentale dedicata all’Under 21, con gli azzurrini che peraltro hanno dominato la scena a cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000. Nel 1936 partecipavano selezioni composte da calciatori iscritti all’Università, l’Italia era ben diversa da quella che appena due anni prima aveva vinto il suo primo Mondiale. In panchina sedeva ancora l’artefice di quel capolavoro, Vittorio Pozzo, ma le sue convocazioni furono giocoforza totalmente condizionate e di fatto nella squadra che vinse quell’Olimpiade non figurava nemmeno un già campione del mondo.
LA PROVA DEL NOVE – Non era dunque una nazionale data per favorita a Berlino: fu proprio questo a rendere irripetibile quel successo, da annoverare non come il logico intermezzo tra le due vittorie ai Mondiali, viste le diverse risorse a disposizione, ma come la prova del nove di un intero movimento. Pozzo aveva scelto con grande attenzione i ventidue da portare con sé in Germania e riuscì a valorizzare diversi di loro, tanto che qualcuno si laureò campione iridato due anni dopo e non mancarono carriere importanti negli anni a venire. Di fatto, però, quella squadra era un insieme di buoni giocatori che allo stesso tempo erano perfetti sconosciuti. L’Italia godeva però di un’ingiustificata ottima reputazione dopo la conquista del Mondiale e così la striminzita vittoria contro gli Stati Uniti all’esordio agli ottavi (sedici partecipanti nel classico tabellone a eliminazione diretta) fece storcere un po’ il naso. I palati fini del Regno, però, riuscirono a rifarsi con gli interessi nel vedere gli azzurri battere il Giappone con un roboante 8-0 ai quarti e poi la forte Norvegia – che si presentava con la formazione tipo – per 2-1 in semifinale.
IL CASO AUSTRIA E LA FINALE – Si aprivano dunque le porte della finale per i ragazzi di Pozzo, che per conquistare il torneo olimpico dovevano vedersela con l’Austria, protagonista però di un incredibile episodio nei quarti di finale. Gli austriaci giocarono e persero sul campo contro il Perù per 4-2, ma presentarono un esposto alla Fifa per una presunta aggressione da parte dei tifosi sudamericani che nell’esultanza per il terzo gol peruviano invasero il campo seguendo la panchina che scattò sul terreno di gioco facendo da apripista a minuti di vero caos. La decisione in merito fu controversa: la partita andava rigiocata, a porte chiuse, due giorni dopo. Non si giocò mai, perché il Perù non accettò la decisione e fece ritorno in patria in segno di protesta. L’Austria in semifinale ebbe la meglio della Polonia e così a Ferragosto le due selezioni si sfidarono con in palio l’oro olimpico, non prima di una comparsata da parte di Jesse Owens – proprio lui, l’astro nascente dell’atletica che aveva sconvolto i nazisti negli stessi giorni – che dichiarò apertamente il suo supporto all’Italia. Fu un match tiratissimo fino al 70′, quando Frossi, per distacco il migliore degli azzurri, portò in vantaggio la squadra di Pozzo. Kainberger, però, pareggiò immediatamente i conti trascinando l’incontro ai supplementari, in cui ancora Frossi trovò la via della rete per il 2-1 che valse il primo storico trionfo dell’Italia ai Giochi.
GLI EROI DEL ’36 – Il trionfo di una nazionale di certo non di primo livello e formata da non professionisti, ma unita in quelle due settimane e capace di tirare fuori il meglio di ognuno. C’era Giuseppe Baldo, ultimo di quella spedizione a morire, nel 2007, all’età di 93 anni; Carlo Girometta, che qualche anno dopo fu fatto prigioniero a Krinovaja, in cui assistette a scene di cannibalismo, e costretto successivamente a frequentare, suo malgrado la Scuola Antifascista: fedele al giuramento di ufficiale del Regio Esercito, l’attaccante fu rilasciato soltanto il 19 luglio 1946, a guerra ampiamente terminata, dopo aver perso 35 kg e contratto il tifo petecchiale. E poi ancora Francesco Gabriotti della Lazio, che a causa di un brutto incidente terminò la propria carriera da calciatore proprio poche settimane dopo aver vinto, ad appena ventidue anni, quelle Olimpiadi, Ugo Locatelli e Alfredo Foni, che vantarono carriere di tutto rispetto negli anni a seguire e che insieme a Pietro Rava e Sergio Bertoni furono gli unici quattro ad aver vinto sia i Mondiali che i Giochi Olimpici. Ma c’era soprattutto lui, Annibale Frossi, l’eroe della finale, quel veloce esterno offensivo affetto da una forte miopia che indossava gli occhiali anche in campo, fissandoli alla nuca con un elastico. Laureato in legge, una volta terminata la carriera di calciatore e di allenatore (vestì la maglia dell’Ambrosiana-Inter e fu poi alla guida dei nerazzurri per alcuni mesi negli anni ’50) fu apprezzato opinionista sulle pagine del Corriere della Sera. E poi Carlo Biagi, Giulio Cappelli, Mario Giani, Adolfo Giuntoli, Libero Marchini, Alfonso Negro, Mario Nicolini, Lamberto Petri, Achille Piccini, Sandro Puppo, Luigi Scarabello, Corrado Tamietti, Paolo Vannucci e Bruno Venturini, guidati dalla sapiente mano di Vittorio Pozzo: furono loro i primi e gli unici ventidue calciatori azzurri che tornarono da un’Olimpiade con la medaglia d’oro al collo.
SUCCESSO IRRIPETIBILE? – Difficile azzardare un’ipotesi su quando potremo riprovare queste sensazioni di fatto sconosciute ad almeno quattro generazioni: in uno dei pochi sport in cui il torneo olimpico non gode della stessa considerazione di Mondiali e altre competizioni, e in un momento fatto di continui alti e bassi per le selezioni giovanili azzurre, alle quali manca da tempo un risultato di grande prestigio, l’impresa di Berlino 1936 sembra destinata a non avere una degna erede ancora a lungo.