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“L’inizio è stato così fluido che sembrava un sogno. Ma a un certo punto, all’inizio, ho dovuto riprendermi, ricordare a me stesso che non era un sogno, che era la realtà, e dovevo trovare la forza in me stesso per viverlo”. Kvicha Kvaratskhelia è il protagonista di un pezzo/intervista in cui racconta al New York Times la sua favola in quel di Napoli.
“Tendo a cedere alla gratitudine. Sono grato per ogni pezzo di amore e affetto che le persone mi mostrano – spiega il giovane georgiano -. È una fonte di motivazione e ispirazione. È una responsabilità enorme. Devo dimostrare ogni partita che posso mantenere le promesse. La libertà è la mia firma, è una cosa che riconosco in me stesso. È perché amo quello che faccio. Quando gioco, in un certo senso il gioco mi porta via”, prosegue Kvaratskhelia, che poi parla della telefonata con Spalletti prima di arrivare in Italia: “È stata una bella chiacchierata. Mi ha detto cosa avrei dovuto fare per la squadra. Abbiamo parlato molto di concentrarsi sul lavoro difensivo, di far parte del gioco di squadra e dell’importanza dello spirito di squadra. Questo è ciò che è veramente importante per lui: lo spirito. Gli allenatori italiani sono famosi. Sanno come far esibire i giocatori”.
“Gioco con il cuore e la passione, ma anche con il cervello. Se non lo usi non migliorerai mai. È più una cosa consapevole che altro, basata su ciò che hai imparato in allenamento, sugli errori che hai fatto in precedenza, sulle opzioni che ci sono”, conclude
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