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C’è stato un momento nella carriera di Fernando Torres in cui il tempo si è fermato. Un momento in cui tutti, chi allo stadio, chi al pub, chi sul divano, ci siamo domandati quale versione del Niño avessimo davanti a noi. Perché quello di “un tempo” era tanta roba, quello “contemporaneo” un po’ meno. Ma andiamo con ordine.
Stagione 2011/12, la prima disputata interamente dall’attaccante spagnolo con la maglia del Chelsea. È un Chelsea titubante, discontinuo, un Chelsea pessimo in Premier League ma migliore in Champions League, in cui supera il girone E al primo posto davanti a Bayer Leverkusen, Valencia e Genk. Non il più complicato dei gruppi, il cui passaggio non evita infatti l’esonero ad André Villas-Boas il 4 marzo in favore di Roberto Di Matteo, anche perché la fase ad eliminazione diretta è iniziata con la netta sconfitta per 3-1 al San Paolo di Napoli.
La prima partita dei Blues con il nuovo tecnico in panchina viene decisa da Didier Drogba (1-0 contro lo Stoke City) e questo per Torres non è un bene. L’ivoriano, non più al top, è comunque un leader, un punto di riferimento troppo importante per i suoi. Difficile rinunciare a lui nelle partite chiave, meno lasciare in panchina quello che sembra il cugino di secondo grado dello splendido bomber che incantava, da avversario, nel Liverpool.
Quattro giorni dopo viene stabilito l’upgrade dall’allenatore precedente a quello nuovo: il Chelsea compie la remuntada ai danni del Napoli, vince 4-1 ai supplementari (primo marcatore Drogba) e avanza ai quarti di finale di Champions. Champions, un obiettivo. Ora per davvero.
Contro il Benfica, poi, el Niño è titolare all’andata e al ritorno, ma non segna. Poco male per i Blues, che vincono 1-0 a Lisbona e 2-1 a Stamford Bridge, conquistando il meritato pass per la semifinale. C’è il Barcellona campione in carica, a questo punto, quella che i più definiscono “la squadra più forte del mondo”.
E ovviamente contro la squadra più forte del mondo Di Matteo sceglie Drogba. E ovviamente contro la squadra più forte del mondo segna Drogba. 1-0 in casa, gara d’andata in cassaforte e fiducia a palate nelle valigie imbarcate per la Catalogna la settimana successiva.
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L’appuntamento con la storia, eccolo qua. Il Chelsea affronta il Barcellona di Guardiola per volare in finale di Champions League. È il 24 aprile 2012 e il Camp Nou è stracolmo. Formazioni ufficiali: Drogba titolare, Torres in panchina.
Si parte e, come da copione, i blaugrana chiudono gli avversari nella propria trequarti, sfiorando il vantaggio con i tentativi di Messi, Fabregas e Mascherano che non riescono a battere Cech. I Blues si affidano alle ripartenze solitarie di Drogba, che combatte ma non incide. Al 35’ la gara si sblocca: Dani Alves (entrato 10 minuti prima per l’infortunato Piqué) serve in area Cuenca, che appoggia al centro per Busquets, autore dell’1-0 a porta vuota.
Nel momento in cui ci sarebbe bisogno di mantenere i nervi saldi, con oltre 90.000 anime che ti urlano contro e una banda di folletti che ti assediano, capitan Terry ha la geniale idea di colpire con una ginocchiata da dietro Sanchez, rimediando un magnifico cartellino rosso. La conseguenza è immediata: Messi manda in porta Iniesta e al 43’ è 2-0.
Sembra finita, l’ennesima impresa del Barça che andrà a vincere un’altra coppa dalle grandi orecchie. C’è un però. Anzi, ce n’è più di uno. Il primo si manifesta al 46’ in due piedi destri: quello di Lampard (ora con la fascia da capitano al braccio) che infila, e quello di Ramires che colpisce, superando Valdes con uno straordinario pallonetto da brasiliano con i fiocchi. Al riposo è incredibilmente 2-1 e il Chelsea sarebbe qualificato.
Il quadro della ripresa è chiaro: la squadra di Guardiola tenterà il tutto per tutto forte della superiorità numerica. Così è. Dopo pochi minuti Drogba, scalato quasi terzino, commette fallo su Fabregas nella propria area: rigore. Dal dischetto va Messi, traversa. Cosa sta succedendo?
Il Barcellona riparte all’assalto. Una, due, tre occasioni ma non va, il pallone non entra. Entra in campo, invece, al 79’ Torres al posto di un esausto Drogba che uscendo stringe i pugni, guarda negli occhi il compagno e dice “C’mon, c’mon!”.
Chelsea in avanti? No, è ancora Barça, che si vede annullare per fuorigioco millimetrico di Dani Alves il gol dell’apoteosi di Sanchez, colpisce il palo con Messi e costringe al grande intervento Cech su destro da fuori di Mascherano. Scatta il 91’ e tutti guardano l’area dei Blues, affollatissima, in cui Xavi cerca un corridoio per servire ad un compagno il pallone del miracolo. Nessuno sa che l’imponderabile sta per succedere dalla parte opposta del prato.
Il passaggio di Xavi viene intercettato, Bosingwa spazza il più lontano possibile ma il più lontano possibile ha un nome e un cognome: Fernando Torres. El Niño parte dalla propria metà campo, davanti a lui solo Valdes. È uno scatto da film, una corsa surreale, effettuata nel gelo di uno stadio disperato che ha capito di avere il destino segnato.
Torres corre con il pallone tra i piedi, sta arrivando a tu per tu con sé stesso. El Niño deve decidere chi essere: quello che ha giganteggiato in Liga e a Liverpool, regalando colpi di alta classe con continuità, o quello sin ora “ammirato” al Chelsea, incapace di fare la differenza, di comandare. Torres corre, è arrivato.
Uno contro uno, esterno destro a saltare Valdes, portiere saltato, tap-in dentro la porta, gol. Ha segnato Fernando Torres, il Chelsea è in finale di Champions League. I Blues si abbracciano, Di Matteo è pazzo di gioia, il settore ospiti ha perso il controllo. Parte la festa, è il preludio di quella ancora più grande: il Chelsea batterà ai rigori il Bayern Monaco all’Allianz Arena conquistando la prima Champions della sua storia.
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