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“Aoh, questo è meglio de Messi”. Se avete vissuto a Roma gli ultimi mesi del 2008, questa affermazione la ricordate, e la ricordate riferita solo e soltanto ad un calciatore, uno che sulle spalle portava proprio il numero 10.
È il 9 luglio 2008 e la Lazio, dopo aver inseguito per settimane invano Rodrigo Palacio, annuncia ufficialmente l’arrivo dall’Al-Sadd di Mauro Matias Zarate. Argentino (e non poteva essere altrimenti) classe ’87 dal fisico tutt’altro che prorompente, ha le sembianze della classica seconda punta “leggera” in grado di assicurare più spunti di qualità che gol. Solo che prima dell’inizio della stagione Tommaso Rocchi, centravanti e trascinatore dei biancocelesti, si frattura la testa del perone, mettendo nei guai il tecnico Delio Rossi, costretto a reinventare l’assetto offensivo già alla prima di campionato.
Con premesse tutt’altro che positive, quindi, e l’ultima pessima stagione da riscattare, la Lazio si presenta al Sant’Elia per affrontare il Cagliari di Massimiliano Allegri. È la prima giornata di Serie A e i biancocelesti partono male, messi alle corde dagli inserimenti di Larrivey che alla mezz’ora sblocca il match. Nella ripresa la squadra capitolina comincia meglio e conquista un calcio di rigore per fallo di mano di Lopez, che viene anche espulso. 62 sul cronometro, dal dischetto va Zarate: è l’inizio dell’assuefazione.
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Mauro fa gol, poi ne fa un altro (delizioso pallonetto di sinistro a batte l’incolpevole Marchetti) e consegna alla Lazio le chiavi del successo, 4-1. La domenica di gara successiva, all’esordio sul prato dell’Olimpicocontro la Sampdoria, l’attesa per l’argentino è tanta, e lui ci mette 7 minuti per “rispettarla”: stop spalle alla porta, finta di corpo, controfinta di corpo, sinistro, traversa, gol. Da questo momento, esattamente da questo momento, lui diventa “Maurito”, e i tifosi cominciano a sognare.
Forte di una invidiabile sfrontatezza, Zarate, poi, timbra il cartellino anche alla Scala del calcio, un gol inutile ai fini del risultato ma comunque di prestigio, a San Siro in Milan-Lazio 4-1 (unica sconfitta nelle prime 6 di campionato). Tra magie, accelerazioni, prodezze dalla distanza e tocchi di fino, Maurito domina e lancia i biancocelesti. In città spopola il paragone con Messi, che come lui ha portato l’Argentina al trionfo nel Mondiale Sub-20: Leo nel 2005, Mauro nel 2007. L’entusiasmo supera la ragione.
Lasciato spazio all’ultimo gol da professionista di Simone Inzaghi, Zarate vive il primo periodo di appannamento dal punto di vista realizzativo, da cui si riprende il 9 novembre con una magnifica punizione contro il Siena. La punizione, il marchio di fabbrica di Francesco Totti, rivale in campo e fuori tra frecciatine e schermaglie.
Se il primo derby di Maurito finisce male, con la vittoria per 1-0 della Roma firmata Julio Baptista, la gara di ritorno è un’apoteosi biancoceleste. Se chiedete ad un tifoso della Lazio quale sia stato il più bel gol di Zarate, è certo che vi risponderà: “Quello contro la Roma a giro sul secondo palo”. That’s it. Una parabola straordinaria sulla quale Doni non può nulla, a rendere memorabile la stracittadina vinta 4-2 dalla squadra di Rossi.
Ma nel frattempo, al netto di un percorso altalenante in campionato, la Lazio ha cominciato una cavalcata entusiasmante in Coppa Italia. Archiviata la pratica Benevento (5-1), i biancocelesti eliminano comodamente (2-0) anche l’Atalanta. Dopodiché, per gli ottavi di finale, si torna a San Siro per la trasferta contro il Milan. Sbloccata la gara da Shevchenko, è Zarate a pareggiare su rigore all’87’. Il gol nel primo tempo supplementare di Pandev, poi, vale il passaggio del turno, ma vale soprattutto la presa di coscienza che la coppa è diventata un obiettivo.
Vincere subito: la volontà quasi infantile di Maurito è quella di un ragazzo spesso sopra le righe, che gioca a calcio con gioia e il cui amore per il pallone gli fa dimenticare, a volte, l’esistenza dei compagni a cui poterlo passare. È un numero 10 che sa fornire assist, ma che pensa prima alla possibilità di andare in porta da solo. Il classico talento che fa innamorare i bambini e che bambini fa tornare gli adulti, gli stessi adulti che però lo rimproverano di non essere “uomo squadra”. Ma probabilmente è per questo che Zarate è rimasto nel cuore del popolo biancoceleste, che ai tempi non poteva certo bramare il desiderio dello scudetto e rimaneva estasiato dalle giocate del suo diamante arrivato un pomeriggio di mezza estate.
La Coppa Italia, dicevamo. Ai quarti di finale Lazio-Torino finisce 3-1, poi c’è il doppio confronto con l’altra squadra del capoluogo piemontese, la Juventus. In un Olimpico con oltre 50.000 spettatori, all’andata i biancocelesti vincono 2-1 in rimonta; al ritorno, all’Olimpico del Nord, il risultato, aperto da Zarate, è lo stesso. Lazio in finale.
Il campionato, in cui speranze di raggiungere l’Europa non c’erano quasi più, diventa una “preparazione agonistica” all’ultimo appuntamento stagionale, l’unico che a quel punto contava davvero. La squadra di Rossi delle ultime 7 gare di Serie A ne vince 2: 1-0 a Marassi contro il Genoa, Zarate, e 1-0 in casa contro la Reggina, Zarate. Mauro Matias Zarate, la coppa, all’ombra del Colosseo, deve portarla lui.
Arriviamo così alla notte del 13 maggio 2009: Lazio-Sampdoria, finale di Coppa Italia. Sugli spalti dell’Olimpico di Roma ci sono 61.482 tifosi, tra biancocelesti e blucerchiati, accomunati dal sogno, più che mai vicino, di vedere il proprio capitano alzare al cielo il trofeo. Ecco, se nel match di campionato Maurito aveva impiegato 7 minuti per gonfiare la rete, stavolta ce ne mette 4: dribbling e sassata di destro da fuori per il gol dell’1-0. Ma la Samp non molla, rimane in partita e alla mezz’ora trova il pareggio con Pazzini. È la seconda ed ultima rete dei tempi regolamentari: la gara termina 1-1 e il risultato non cambia neanche ai supplementari.
Si va ai rigori e Delio Rossi sceglie Zarate come quinto. Sarà lui a segnare l’ultimo penalty, sarà lui a chiudere la notte da eroe. Il destino, però, la vede diversamente. Segna Ledesma, sbaglia Cassano ma sbaglia pure Rocchi. Poi tutti a segno, Maurito compreso. Il settimo rigorista blucerchiato è Campagnaro: para Muslera. E alla fine il protagonista che non ti aspetti è Dabo, che trafigge Castellazzi e scatena il tripudio del popolo biancoceleste.
La Lazio conquista la Coppa Italia e la qualificazione all’Europa League e Zarate indossa la maglia, indirizzata a Totti, con la scritta “Io campione, tu zero tituli” citando la battuta di Mourinho nei confronti della Roma e delle altre big annichilite dall’Inter di quegli anni. L’argentino chiude la stagione, la sua prima in Italia, con 16 gol e 8 assist in 41 partite disputate. È il trionfo del talento, la vittoria dell’istinto che prevale sulla ragione. Perché in quei 9 mesi il tifoso della Lazio ha fatto una scelta che non rinnegherà mai: mettere da parte i giudizi razionali per concedersi al susseguirsi degli eventi, trascinato dalla dolce sensazione che quel ragazzo nato a Buenos Aires a qualcosa di buono avrebbe portato. Ed effettivamente, a conti fatti, Maurito del buono l’ha portato.
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