30 maggio 1984. Qualunque tifoso di fede romanista ha i brividi quando si trova a dover leggere questa data. Una data che, in parte, molti vorrebbero scordare. La finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool si gioca allo stadio Olimpico. Un Olimpico carico di elettricità, di euforia, di passione. Migliaia di tifosi che intonano cori e sventolano bandiere, tutto lo stadio all’unisono chiama i giocatori. Tra tutti, l’unico che sembra rimanere imperturbabile è proprio Agostino Di Bartolomei. Il capitano romano e romanista non mostra alcun segno di emozione. Nessun sorriso, nessuna espressione. Quasi come a voler tenere nascosto tutto l’amore che prova per la sua Roma. La partita termina ai rigori. I Reds sbagliano il primo, Di Bartolomei no. Un passo dal pallone, rincorsa breve e tiro centrale. Ma non basta e ad alzare la coppa alla fine è il Liverpool. La notte più triste nella storia della Roma. La notte che segnerà anche l’inizio del capolinea di un’altra grande storia, quella di Agostino Di Bartolomei con la sua squadra del cuore.
Ma non ci si può piangere addosso, c’è un’altra stagione da iniziare, un altro campionato da rivincere. Solo che per Agostino non ci sarà una seconda occasione. Con l’arrivo del nuovo allenatore Eriksson, viene messo in secondo piano. Di punto in bianco, non rientra più nel progetto e nell’idea del tecnico svedese. Durante la sua ultima partita in giallorosso in Coppa Italia contro il Verona, la Curva Sud gli rende omaggio: “Ti hanno tolto la Roma ma non la tua curva”.
Liedholm gli propone di andare con lui al Milan, accettando quell’offerta che 16 anni prima aveva orgogliosamente rifiutato. Il capitano lascia la Roma con la morte nel cuore ma con altrettanta voglia di rivalsa. Vuole dimostrare che ha ancora tanto da offrire a questo sport. Affronta la sua Roma proprio a Milano. Segna ed esulta. Esulta come poche volte aveva fatto. Sembra quasi voler dire: “Lo vedete? Lo vedete quanto ancora valgo?”. Ed è lì che il legame si spezza inesorabilmente. I tifosi non gliela perdoneranno mai. Proprio lui, come ha potuto?
Dopo i 3 anni al Milan, inizia il lungo viale del tramonto: l’ultima avventura in Serie A la passa a Cesena e poi va alla Salernitana in Serie C, sempre da capitano. Sarà proprio grazie al suo contributo che i campani riusciranno a conquistare la promozione alla categoria superiore dopo oltre vent’anni. Alla fine dell’ultima partita di campionato con tutto lo stadio che fa festa, Agostino dichiarerà: “Questa è stata la mia ultima partita”.
PER SEMPRE AGO – Arriva il 30 maggio 1994. Si è data la colpa a tante cose. Un investimento sbagliato, rapporti familiari arrugginiti, una chiamata della Roma di Sensi che non arrivava, la sensazione di essere intrappolato in una vita non sua, la nostalgia per la sua città. 10 anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool. Un colpo di pistola e tutto finisce in quel momento. Un colpo di pistola dritto al cuore. Quella maledetta pistola da tanti anni oggetto di critica e curiosità, quella maledetta pistola che Agostino si portava dietro senza farne mistero, che aveva comprato per proteggere la sua famiglia. Quell’uomo riservato e profondo, introverso e sensibile decide che non può più reggere il peso di quella vita, quell’ombra che si porta appresso da anni e che lo stava logorando ha il sopravvento. Il capitano si è arreso questa volta. Ha scelto di andarsene. Di Ago non restano che due foglietti strappati: “Non vedo l’uscita dal tunnel. Mi sento chiuso in un buco”. Il capitano silenzioso, il capitano della rivalsa, il capitano che ha portato via lo scudetto ai soliti squadroni del nord, il capitano della gente. E al popolo romanista, con una tremenda ricorrenza decennale, due volte il cuore si è fermato e due volte il sole si è oscurato. Nessuno potrà mai darsi una spiegazione della tragica scelta di Agostino. Quel che è certo, però, è che il suo ricordo è rimasto nella memoria di tutti. Anche di chi lo aveva scordato.