“Io e mio padre Giuseppe siamo vittima della giustizia italiana. A noi la ‘ndrangheta fa schifo, ci stanno massacrando, ci hanno massacrati. Non c’è una prova per la quale possano condannare mio padre a 13 anni. Sono solo chiacchiere. C’è una persona in carcere da innocente”. Queste le parole di Vincenzo Iaquinta tramite un videomessaggio dopo la condanna nei confronti suoi e di suo padre. Per l’ex campione del mondo si tratta di due anni per un’arma non denunciata, mentre per Giuseppe Iaquinta 13 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. “È il cognome che abbiamo e perché siamo calabresi, tutto qua. Con quel metro, in tanti dovremmo essere in carcere – ha proseguito l’ex giocatore della Juventus – Cosa dovrei dire? Peccato che siamo nati in Calabria? Tengo alla mia terra, sono orgoglioso di essere calabrese, di essere nato a Crotone, provo ribrezzo per questo accostamento alla ‘ndrangheta, che neanche sappiamo dove stia di casa. Non abbiamo nulla da nascondere, anzi all’epoca fu mio padre a chiedere controlli per far verificare che persona fosse”. Il padre si è rivisto ridurre la pena da 19 anni a 13: “Papà ha sempre lavorato, senza mai dare fastidio a nessuno, ha fatto tutto da solo, partì dalla Calabria a 16 anni, con mamma. È qua da mezzo secolo, incensurato, mai multato, cosa devo aggiungere? Con tutto quanto ho guadagnato in carriera, avevo bisogno dei soldi sporchi della ‘ndrangheta? Credo ancora alla giustizia, me l’aspetto nell’ultimo grado. I primi due sono stati uno schifo, una vergogna, ma devo avere fiducia: del resto hanno in mano mio padre. Però debbono leggere le carte processuali, non si possono sparare 13 anni per un pranzo, per una maglietta, per un matrimonio, per due ombrelloni rubati e poi restituiti. Questa sarebbe ‘ndrangheta?”. E in merito al pranzo che ha innescato la faccenda ha aggiunto: “Risale al 2011: ero ancora alla Juve, dal 2007. Secondo voi, la ‘ndrangheta può fare un summit all’aperto, con i bambini, e poi li posta su facebook? Presero la foto dai social, mio padre mai aveva lavorato con questi. Vengono contestati 4-5 incontri in tutto. Quel pranzo finito su facebook era al mare, a casa dei miei genitori. Mio cugino, Gaetano Belfiore, figlio della sorella di mio padre, sta con la figlia di Nicolino Grande Aracri, hanno una bambina. A Cutro è come fossimo tutti imparentati. In Calabria, vai a un matrimonio, a un fidanzamento, persino a un funerale, per rispetto della gente. È un’usanza di tutto il sud”. Giuseppe Iaquinta conosceva Nicolino Grande Aracri, il boss al centro del processo Aemilia: “Lo conosceva da bambino. Sono coetanei, giocavano insieme e poi si persero di vista. Era un uomo libero, se per caso al bar c’è un pregiudicato e prendono un caffè insieme, mica può andarci di mezzo lui. Allora certe persone andrebbero tenute dentro, se chi le incontra per caso deve temere di finire nei guai. La gente lo attirava per il cognome, per quanto ho fatto io nel calcio. Tanti chiedevano una foto, una maglia, un autografo: mica sono reati. E adesso le foto sono in prima pagina ma, per le condanne”.
Iaquinta: “Io e mio padre vittime della giustizia italiana”
Foto Antonio Fraioli