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È questa la partita che Fernando Torres sognava da bambino. La finale di San Siro contro il Real è “la gara più bella ed importante della vita” per l’attaccante, tifoso rojiblanco da sempre, che stasera guiderà l’Atletico Madrid all’assalto della sua prima Champions League. C’è da sfatare la maledizione di quella coppa sfuggita dalle mani dei colchoneros nel 1974 contro il Bayern e poi nel 2014 nella notte di Lisbona contro il Real. Fatali le reti di Schwarzenbeck e Sergio Ramos subite entrambe negli ultimi minuti di gioco. C’è da togliersi dalla spalla la scimmia della squadra sfigata, l’etichetta che il più grande presidente della storia dell’Atleti, Vicente Calderon, cucì sul destino del club col suo commento “Pupas” dopo la sconfitta nella finale ripetuta contro il Bayern.
“Adoro tenere sulle spalle 113 anni di storia”, ruggisce Simeone, il demiurgo dell’Atletico Madrid che per la seconda volta in tre anni ha portato all’atto finale della Champions. Sempre contro il Real: Madrid è oggi la capitale del calcio europeo. Da una parte l’eleganza e l’eccellenza dei Galacticos, dall’altra la passione e il senso di appartenenza dei “materassai” rossobianchi. Da una parte la Casa Blanca di Zidane e Ronaldo che va a caccia della sua undicesima Coppa dei Campioni, dall’altra la banda Simeone che vuole ribaltare le gerarchie del calcio continentale.
Due squadre, due culture calcistiche, due visioni del mondo. Il partito Real con il suo “potere” politico, la forza mediatica, il canone estetico che impone nobiltà d’animo e perfezione di stile. Quando vieni dopo Gento, Alfredo Di Stefano, Juanito, Butragueno, Valdano, Raul, non ti puoi accontentare solo di vincere. Devi essere ininterrottamente sublime. A parte il Barcellona, non c’è nulla di più lontano dal mondo Real dell’Atletico Madrid. Una riserva indiana in riva al Manzanarre. Un club di sognatori, la cui storia si intreccia con quella di universitari e giovani letterati, che ha creato un contropotere sportivo e culturale al bipolarismo egemonico di Real e Barcellona. Agonismo e sforzo, “che anche sul dizionario viene prima di successo”. Valori non negoziabili e attaccamento al club. Cholismo puro, il neologismo che è diventato il manifesto programmatico di una magnifica minoranza, come racconta il giornalista Rubén Amon nel suo libro “Atletico de Madrid. Una Pasiòn, una gran minorìa” (La Esfera de los Libros, 2014).
È stato il capobanda Simeone a forgiare il nuovo stile Atleti: “Io non posso cambiare la mia maglia con un’altra. La mia vale di più”, disse alla vigilia di una partita di Champions contro il Porto nel 2013. L’identificazione totale tra club, squadra, tifosi e uno stadio, il Vicente Calderon, che diventa luogo dell’anima e “prolungamento della vita stessa”. Con il suo carico di “delusioni, entusiasmo, brividi, orgasmi”. E il delirio di una domenica di gennaio quando quarantacinquemila tifosi si ritrovarono sugli spalti per accogliere il ritorno del figliol prodigo Torres. Il simbolo dell’Atletico. Il “Niño”, rigenerato dalla cura Simeone dopo i patimenti milanisti, torna a San Siro – dove ha già segnato con la maglia del Liverpool a differenza di Cristiano Ronaldo – e lancia la sua sfida al Real: “Per me questa finale significa tutto”.
Tasto rewind: il nonno tifoso e il sogno della camiseta rojiblanca, il provino a 11 anni, l’esordio a 17, il primo gol all’Albacete (festeggiato con uno yogurt), la fascia da capitano a 19. Tanta vita che gli passa davanti e un debito di gratitudine immenso nei confronti dell’Atletico e di Simeone: “Posso concretizzare ciò che sognavo da bambino”. Giocare la finale di Champions e vincerla. “Ganar, ganar, y ganar”, come ripeteva sempre un’altra icona dei colchoneros, Luis Aragones. Perché poi, come ha ricordato Simeone, la questione non è tanto spiegare perché uno è dell’Atletico ma chiedersi perché non sono dell’Atletico tutti gli altri.