“Lo vedi quello? E’ l’uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile”. E’ il 1970 e sono passati ormai vent’anni dal giorno più tragico della memoria calcistica – almeno fino ad allora – del popolo carioca, ma la ferita non si era rimarginata. E la faccia, nera e un po’ malinconica, di Moacir Barbosa Nascimento se la ricordano un po’ tutti, anche quella signora che lo addita in un negozio al proprio figlio. Se la ricordano tutti, quella faccia nera e un po’ malinconica, perché il 16 luglio del 1950, nel famigerato Maracanazo di Rio de Janeiro, quest’uomo sulla cinquantina aveva ventinove anni e il suo mestiere era quello del portiere. Il portiere della nazionale del Brasile, il titolare indiscusso tra i pali fino a quella maledetta partita che di fatto gli costò la carriera. Non Ghiggia che segnò il gol decisivo dell’1-2, piuttosto l’estremo difensore verdeoro che lo subì: era proprio Moacir Barbosa il capro espiatorio designato da un intero popolo.
LA PORTA SBAGLIATA – Nel 1950 il Brasile era un’isola felice: governo di stampo democratico per la prima volta dopo la guerra, e soprattutto l’onore e onere di organizzare per la prima volta i Mondiali di calcio. Era la quarta edizione, la prima a distanza di ben dodici anni dopo l’interruzione per la guerra: doveva essere un’edizione storica e lo fu, anche se dalla porta sbagliata. Ed è proprio la porta a essere fulcro di quel pomeriggio così traumatico al Maracanà, la porta del Brasile, quella difesa da Barbosa. Il portiere era all’apice della propria carriera e appena un anno prima era stato tra i protagonisti in quella che sarebbe poi diventata la Copa America. Era riconosciuto come uno dei migliori nel suo ruolo e difendeva i pali di quella che, a detta di molti, era ritenuta la squadra più forte in circolazione. In effetti, quel Brasile era un insieme ben amalgamato di fenomeni tra i quali spiccavano Jair, Zizinho e Ademir, ma anche Barbosa contribuiva con le sue parate ai successi dei ragazzi allenati da Costa.
IL BRASILE AVEVA GIA’ VINTO – Il Brasile è protagonista di un cammino praticamente perfetto e si qualifica per il girone conclusivo a quattro che metteva in palio la Coppa del mondo. 7-1 alla Svezia, 6-1 alla Spagna: il giorno che precedeva l’ultimo scontro, quello decisivo con l’Uruguay, i giornali dell’epoca erano già usciti con titoli trionfalistici del calibro di O Brasil vencerá (Il Brasile vincerà) e A Copa será nossa (La Coppa sarà nostra). O Mundo, addirittura, pubblicò in prima pagina la foto della squadra brasiliana con un titolo inequivocabile come Estes são os campeões do mundo (Questi sono i campioni del mondo). Troppa la differenza tecnica con l’Uruguay che però vantava già un titolo iridato, quello conquistato proprio nell’edizione inaugurale ospitata dal piccolo paese sudamericano. Era dunque un derby, ma Davide contro Golia: una nazione sconfinata contro un territorio grande quanto la Sicilia ma da sempre terreno fertile per i piedi buoni, e soprattutto si giocava in casa della Selecao in un Maracanà che in barba alle minime norme di sicurezza era pronto a contenere duecentomila spettatori. Milioni e milioni avrebbero seguito la partita in radio e si sarebbero riversati in strada a festeggiare la prima vittoria di un Mondiale. Erano le ore 15 locali e veniva dato il calcio d’inizio dal signor Reader: poco prima delle 17, però, l’esito sarebbe stato quello che in pochi potevano aspettarsi.
MARACANAZO – Nessuno si aspettava goleade come quelle viste in precedenza: l’Uruguay era comunque una squadra forte, rodata e con alcune interessanti individualità, e Schiaffino era probabilmente il più forte giocatore in campo tra i ventidue titolari. Il primo tempo fu bloccato e privo di emozioni, a inizio ripresa il primo fuoco d’artificio. Lo sparò il Brasile, al quale, classifica alla mano, andava bene anche il pareggio per laurearsi campione del mondo. Friaca, in ogni caso, al 47′ porta in vantaggio i verdeoro con un bel diagonale e il Maracanà esplode di gioia. Adesso servono due gol alla Celeste e il tempo stringe. Il clima di festa sembrava inscalfibile, ma al 66′ Schiaffino si ritrova tra i piedi un pallone d’oro e lo scaraventa in rete a tu per tu con un incolpevole Barbosa. Incolpevole, già, ma non per molto. A dieci minuti dal termine si concretizza il dramma di un popolo e di un singolo uomo. Il folletto Ghiggia va via in dribbling sulla destra e guarda in mezzo all’area: ci sono dei compagni che si stanno smarcando e aspettano l’ovvio cross. L’ala uruguaiana, però, colpendo male o forse ispirato da qualcosa di ultraterreno, anziché far partire un traversone colpisce la palla dritta per dritta indirizzandola verso la porta, sul primo palo. Moacir Barbosa, proprio come gli altri calciatori in campo, proprio come i duecentomila sugli spalti, aveva pensato al cross e si era mosso in anticipo nel tentativo di intercettarlo. Nell’incredulità generale la sfera si insacca e l’Uruguay si porta in vantaggio nel modo più incredibile: i video dell’epoca mostrano il portiere in ginocchio ed è un’immagine premonitrice. Non c’è reazione, il Maracanazo è servito e dall’euforia si passa al dramma sportivo.
IL CAPRO ESPIATORIO – L’elaborazione del lutto non fu di breve durata, ma la caccia all’uomo figurata iniziò ben presto. Tutto il Brasile, ingiustamente, aveva già individuato e processato il colpevole. Nome: Moacir. Cognome: Barbosa. Segno particolare: aveva fatto quello che chiunque avrebbe fatto al suo posto. La delusione e la rabbia, però, non lasciano tempo e spazio a riflessioni: il portiere del Brasile, all’apice del successo, finì nel dimenticatoio nonostante fosse stato riconosciuto come uno dei migliori portieri della sua epoca. Il destino fu beffardo, visto che per le prestazioni fornite nell’intera competizione vinse il riconoscimento di miglior estremo difensore della rassegna e fu probabilmente questa l’ultima soddisfazione della propria vita. Il capro espiatorio era stato trovato e da qui in avanti fu sempre peggio. Si mise in mezzo anche la sfortuna, con un infortunio decisamente grave con rottura di tibia e perone nel 1953 che lo mise definitivamente fuori dei giochi in un periodo in cui sembrava poter rientrare nel giro della Nazionale (che avrebbe peraltro vinto finalmente il Mondiale un anno dopo) seppur come riserva.
CINQUANT’ANNI DI SOLITUDINE – Nel frattempo, con l’uscita a vuoto di Barbosa ancora negli occhi di tutti, si rese più complicato per i portieri di pelle nera la possibilità di mettersi in mostra: nei club e in Nazionale, a parità di prestazioni, cominciarono a essere preferiti i bianchi e molti presidenti evitavano di mettere sotto contratto portieri di colore. A loro volta i giovani ragazzi di etnia nera che si approcciavano al mondo del calcio evitavano di intraprendere la carriera del portiere e dopo tanti anni Nelson Dida, nel 1999, arrivò a difendere i pali della porta brasiliana a quarantanove anni di distanza dall’ultima presenza di Barbosa in quel giorno maledetto del Maracanà. Moacir si sarebbe spento un anno dopo, nel 2000, giusto in tempo per assistere a quel piccolo riscatto. Dopo il ritiro arrivato nel 1962, però, aveva vissuto in assoluta povertà da vero emarginato in un enorme nazione che gli aveva voltato le spalle a ogni latitudine. La solitudine dei numeri primi. A questo proposito, dichiarò: “In Brasile la sentenza più pesante è di trent’anni, ma la mia prigionia ne è durata cinquanta”.