Il 4 maggio 1949 l’Italia intera piangeva il Grande Torino e quest’anno in particolare il ricordo della tragedia di Superga è reso più atroce dal fatto che non ci sarà alcuna commemorazione per via dell’emergenza coronavirus. “Solo il fato li vinse”: quel maledetto schianto dell’aereo che riportava la squadra granata, dominatrice incontrastata del dopoguerra in Serie A, a Torino dopo un’amichevole contro il Benfica a Lisbona aveva segnato un po’ tutti nel profondo. La commistione di sacro e profano, un incidente aereo con una Basilica come scenario, il calcio a piangere le proprie vittime: bisognava comunque ripartire, col cuore spezzato dal dramma, senz’altro, ma a distanza di un anno c’era già il Mondiale 1950 in Brasile per il quale gli azzurri vantavano lo status di campioni in carica, avendo vinto le ultime due edizioni (1934 e 1938) prima della sospensione a causa della seconda guerra mondiale.
Il Grande Torino, però, costituiva l’ossatura fondante della Nazionale guidata, dopo le dimissioni di Vittorio Pozzo, da una commissione tecnica presieduta da Ferruccio Novo insieme a Roberto Copernico, ex direttore tecnico proprio della squadra piemontese e inventore del “sistema”, Aldo Bardelli e Vincenzo Biancone. Gran parte dei titolari indiscussi che avrebbero partecipato nei loro piani alla rassegna iridata erano stati stroncati dalla tragedia di Superga e negli occhi di tutti c’era ancora quello strazio: un’Italia del tutto rimaneggiata e quasi sperimentale doveva presentarsi in un anno ai Mondiali, cercando di far bella figura. E dopo i terribili fatti del 4 maggio 1949, l’avventura degli azzurri in Brasile rappresenta una piccola commedia dentro a un lutto che resiste ancora oggi. E che, per sdrammatizzare, proviamo a raccontare.
IL VIAGGIO DELLA SPERANZA – Un anno e un mese dopo Superga, la tragedia non è un capitolo chiuso, tutt’altro. La Figc, evidentemente suggestionata, stava pianificando la partenza della Nazionale per il paese carioca. Come? Di aereo neanche a parlarne. All’epoca la tratta Italia-Brasile veniva coperta in 35 ore circa, un viaggio lungo con il pericolo di un altro dramma che andava evitato. Fu così che Federazione, giocatori e anche la stampa decisero di optare per un altro mezzo di trasporto, la nave. Che però, per raggiungere Santos, ci avrebbe messo qualcosa come due settimane. Incredibile, ma vero: quell’Italia ancora scottata dalla fine del Grande Torino si imbarcò per un’estenuante traversata di oltre quindici giorni dal porto di Napoli. Era il 4 giugno 1950 e dopo un pranzo con l’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti gli azzurri convocati per quella spedizione partirono a bordo della motonave Sises con altri migliaia di passeggeri ai quali era però bandito il ponte superiore, interamente affittato dalla Figc.
ANEDDOTI INCREDIBILI – I testimoni di quell’assurdo viaggio da medioevo, su tutti Giampiero Boniperti che si era subito guadagnato la convocazione e che avrebbe di lì a poco scritto la storia della Juventus, raccontano di episodi al limite del grottesco. Si narra infatti che sul ponte della nave ci fosse adeguato spazio per svolgere gli allenamenti in preparazione alla Coppa del mondo e che dunque i giocatori erano chiamati a delle sessioni con l’imbarcazione in pieno movimento. Fatto sta che la maggior parte dei palloni a disposizione furono persi nei primi giorni di navigazione, calciati involontariamente in mare e non più recuperabili. Niente palloni, niente allenamenti seri. Chi c’era, raccontò di un’unica partita di allenamento giocata a Las Palmas, nelle Canarie, dove la nave si fermò quattro giorni dopo essere salpata. La federazione fece nuovamente incetta di palloni, ma anche quelli ben presto fecero compagnia agli altri in pieno Atlantico, anche se Amedeo Amedei smentì dicendo che non c’erano mai state palle a disposizione durante tutto il viaggio. Insomma, palle anche quelle. Altri aneddoti ci raccontano di partite a pallavolo e al gioco della piastrella improvvisate dai giocatori, di sketch comici messi in piedi da Lorenzi, Remondini e Cappello, i tre convocati dal maggior spirito comico, che imitavano dei mariachi con dei sombreri comprati nell’isola prima di ripartire per l’unica tirata fino in Brasile. Per sintetizzare, mai scelta fu più sciagurata: i giocatori si annoiavano, non riuscivano a mantenere la concentrazione, erano fuori allenamento e pochi giorni dopo avrebbero dovuto giocare il Mondiale con tutti gli occhi addosso.
LOGICA CONSEGUENZA – La nave sbarcò a Santos accolta da tantissimi emigrati italiani, ma neanche nei giorni immediatamente precedenti all’inizio della rassegna ci fu pace per la Nazionale. La Figc aveva infatti rifiutato di alloggiare presso l’enorme villa di un ricco imprenditore, spaventata dall’altezza (560 metri) della tenuta di campagna dell’uomo, e così gli azzurri furono costretti a scegliere un hotel di San Paolo che, come racconta Gianni Brera che era al seguito dell’Italia, ospitava anche un gruppo di ballerine argentine da perdere il fiato. Concentrazione persa sulla nave e mai più ritrovata in Brasile per i campioni del mondo in carica, che ebbero anche la poco brillante idea di partecipare alla festa di San Giovanni, il 24 giugno, alla vigilia dell’esordio contro la Svezia: fuochi d’artificio, canti e urla fino al mattino che non aiutarono i calciatori a trovare il giusto riposo. Allo stadio Pacaembu la Nazionale doveva affrontare la Svezia in un girone da sole tre squadre, vista la formula particolare con 13 compagini partecipanti totali divise, anche questo illogico, in due gironi da quattro, uno da tre, uno da due. Gli azzurri giocarono male, persero 3-2 ed erano con un piede e mezzo fuori visto che si qualificava solo la prima e gli scandinavi pareggiarono 2-2 (specialità della casa, come i biscotti) contro il Paraguay rendendo vana la vittoria italiana per 2-0 contro i sudamericani. Dopo le vittorie del ’34 e ’38, l’Italia abdicava nel peggiore dei modi, fuori già dopo il girone. Due settimane di viaggio della speranza, otto appena i giorni dentro al Mondiale: l’incredibile paradosso azzurro si era concretizzato e non restava altro che ripartire da quell’amara terra carioca che avrebbe poi registrato il Maracanazo e la conquista, da parte dell’Uruguay, del secondo titolo. Il 2 luglio 1950 la selezione azzurra tornava a casa: in aereo, ovviamente.