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Quel suo volto scavato da un’espressione perennemente serena e timida lo ha reso quasi più riconoscibile di quel nome e cognome tanto diffusi in Italia. Persino Venditti fu costretto a chiarire che quel “Paolo Rossi” citato nella canzone “Giulio Cesare” non era l’eroe Mundial ma un ragazzo morto in uno dei tanti scontri in una Roma bollente del ’66. Nel giro di tre settimane la storia del calcio perde Diego Armando Maradona e Paolo Rossi. In comune c’è una data, tanto simbolica per entrambi: il 5 luglio. Quello dell’1984, Diego che si presenta a Napoli. Quello del 5 luglio del 1982, la Tragedia del Sarrià, una delle pagine buie della storia della verdeoro, forse alle spalle solo del Maracanazo e del 7-1 con la Germania. Stavolta però i mattatori involontari di un sentimento non sono più Ghiggia o Klose. C’è lui, Paolo Rossi. Uno che a 22 anni, già Pablito per le gesta d’Argentina, in un’intervista al Corriere della Sera definiva “ingiusto” che un calciatore guadagnasse per fare quello per cui era nato e che un laureato al contrario fosse senza lavoro. La sua prima partita da professionista la giocò in Coppa Italia. Un Cesena-Juventus 0-1 del 1974, a farlo esordire Cestmir “Cesto” Vycpalek, zio materno di Zdenek Zeman. Per la prima tripletta tocca aspettare il 1978, nella stessa stagione trascinò il Vicenza ad uno storico secondo posto. E’ il primo tassello del cammino che lo riportò alla Juventus: due volte campione d’Italia, una Coppa dei Campioni, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea. E il Mondiale 1982 ovviamente, quella in cui segnò l’estate di due Nazioni: Italia e Brasile. Campione del Mondo, capocannoniere della rassegna, Pallone d’oro del Mondiale e Pallone d’Oro assoluto, il terzo italiano a riuscirci.
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Prima del match contro Falcao e Zico, Cabrini lo prese quasi in giro: “Oh pronto, cross mio e gol di testa tuo”. Di testa segnava poco, era suo punto debole. E invece: assist di Cabrini, gol di testa. Il primo di tre. Quella Nazionale che fu mosaico di scaramanzie, caratteri diversi, simpatie radicalmente opposte. L’unica scaramanzia che Rossi si concesse fu una collana biancorossa regalata da un amico di Vicenza: “Mettila e ricordati chi eri quando giocavi con noi“. Se l’è ricordato. Nel momento in cui si è sparsa la notizia della morte di Paolo Rossi, in Brasile è balzata subito al numero uno delle tendenze di Twitter. E subito da più parti sono apparse solo testimonianze stupende di chi Paolo Rossi l’ha vissuto dall’altra parte, come fu per Alcides Ghiggia, uno che col suo gol riuscì a zittire uno stadio intero come solo “il Papa e Frank Sinatra”. Quasi sessant’anni dopo Ghiggia fu omaggiato dal Brasile con un posto nella walk of fame del Maracanà. Per Paolo Rossi sarà probabilmente lo stesso perché quando il dolore lascia il posto alla passione, quel che resta è l’amore per il campione e per il gesto sportivo. Alcides Ghiggia si spense il giorno stesso del Maracanazo. Paolo Rossi se n’è andato il 10 dicembre, quello del suo addio al calcio. Una chiusura del cerchio? No. Paolo Rossi a 64 anni aveva tanto da dare, da splendido opinionista e da dirigente e ambasciatore del suo Vicenza. Non è giusto. E la vera chiusura l’ha data Trapattoni: “I calciatori non dovrebbero morire prima degli allenatori“. Che bello il calcio.
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