La prima volta che il nome di Diego Armando Maradona è apparso su un quotidiano italiano era il 28 maggio del 1978 e il futuro fuoriclasse del calcio mondiale non era che una giovane promessa dell’Argentinos Jr e della Nazionale argentina. Il Corriere della Sera titolò “Prenotato dalla Juve il ‘sosia’ di Sivori” descrivendolo come una “mezzala di punta, è secondo i tecnici argentini la riedizione di Omar Sivori”. L’articolo fu cattivo profeta perché Diego Armando Maradona fu molto di più. E soprattutto non vestì mai il bianconero, ma l’azzurro a tinte leggermente più scure dell’Albiceleste, quello del Napoli che si prepara ad omaggiarlo in tempi di distanziamento sociale. Si tratta dell’aspetto più triste dopo la notizia della morte del più grande di tutti i tempi, quella di un San Paolo che in due partite contro Rijeka e Roma non potrà riempirsi. Sarà la sintesi più dolorosa di questo 2020 e rumorosa nel silenzio di un San Paolo che ha ospitato le sue magie sotto la colonna sonora di ‘Live if life’. Diego Armando Maradona è religione. Non è un caso che per lui sia stata addirittura creata una Fede, la Iglesia Maradoniana. Magia del volto folcloristico del calcio. Come quei palleggi nella Coppa Uefa nel 1989. Poi gli aspetti controversi che non sminuiscono la sua figura. La rete di mano all’Inghilterra che qualche giorno fa ha assicurato di voler ripetere “ma solo con l’altra mano” è già alle spalle per tutti. Gary Lineker, uno che in quella partita ha segnato, non ha dubbi: “Il miglior giocatore della mia generazione e probabilmente il più grande di tutti i tempi. Dopo una vita benedetta ma travagliata, si spera che finalmente troverà un po’ di conforto nelle mani di Dio“. Poi la rivalità di Pelè che oggi lo chiama “amico” e assicura di voler “giocare un giorno una partita in cielo insieme”.
“Diego era capace di cose che nessuno avrebbe potuto eguagliare. Le cose che io potrei fare con un pallone, lui potrebbe farle con un’arancia“, disse di lui invece Platini. La popolarità che stritolava il suo spazio privato è la cosa che più lo ha infastidito nel corso della sua vita. Boca Juniors, Barcellona, Napoli le sue maglie più amate a livello di club. Da Buenos Aires a Napoli passando per Barcellona, dove i giornali lo definivano “miliardario triste“. Ma anche in Argentina, l’Italia era sempre lì, nel destino. Il presidente del Boca Juniors dell’epoca, Altamirano, figlio di mamma napoletana, provò a trattenerlo in tutti i modi. Nel 1980 a complicare ulteriormente il momento delle casse del Boca fu la svalutazione della moneta argentina rispetto al dollaro. Poi la crisi finanziaria interna al club e la cessione, nonostante una colletta organizzata dagli italoargentini tifosi per aiutare il club a non cedere la stella più luminosa di tutte. Ma il destino lo portò in Italia, alla corte degli 80.000 del San Paolo del 5 luglio 1984. Saranno tutti virtualmente lì in questa settimana che vedrà per ben due volte il Napoli scendere in campo nel suo stadio. In un’intervista del 1980 disse che l’Italia gli piaceva poco perché “si corre troppo, si gioca poco“. La rivoluzione l’ha dettata lui, fuoriclasse del gioco e interprete più grande di tutti i tempi. Ma anche simbolo e volto di una città che in lui ha visto motivo di speranza, fiducia e riscatto. Si diceva che un suo gol rappresentava la rivincita del sud contro il nord. Ma da oggi mancherà davvero a tutti.