5 maggio 1969: Bill Russell si ritira vincendo il suo undicesimo anello ai danni dei Los Angeles Lakers. Un vincente: la storia di William Felton Russell, non può che essere associata a questo vocabolo. Non potrebbe essere altrimenti, con un palmares del genere. Non solo per la quantità di affermazioni guadagnate in una carriera leggendaria, ma anche per la qualità con cui il centro dei Celtics sapeva stare in campo: mai accentratore, passatore, sempre pronto ad aiutare, anima della difesa ed epitome del gioco di squadra. Russell non ha mai segnato 20 punti di media in una stagione, tirava anche maluccio dal campo, anche ai liberi il meteo segnava brutto tempo. Solo tre volte è stato primo quintetto NBA, decisamente meno rispetto ai cinque MVP, un’anomalia statistica che serve a spiegare cosa abbia significato Bill Russell, per Boston e per il basket in generale.
Dopo aver militato al college nei San Francisco Dons e dopo aver rifiutato gli Harlem Globetrotters, decise di dichiararsi per il Draft 1956. Venne notato da Red Auerbach, il quale credeva fortissimamente nella propria pallacanestro: voleva un gioco basato su difesa e contropiede, velocità e movimento di palla. Si era convinto che Bill Russell potesse essere il giocatore giusto. Il lungo nativo di Monroe infatti si è reso protagonista di una vera e propria rivoluzione difensiva a Boston, inventando il gesto tecnico della stoppata. Russell, come spiega lui stesso in varie interviste, inventò la stoppata (che allora non era conteggiata tra le statistiche) concependola come gesto offensivo, con l’intenzione di far ripartire subito il contropiede dei compagni. Un’altra delle sue specialità era il rimbalzo: Russell, che era “solo” 208 cm, riusciva a rendere normale e agli occhi semplice una marcatura su giocatori molto più fisici. L’ex Celtics è stato un grande esempio nonché motivo di ispirazione per molti campioni del futuro, e c’è chi sostiene che prima degli anni ’90 e dell’ascesa di MJ, Russell fosse considerato il miglior giocatore di sempre.
Non si può tuttavia parlare di Russell senza parlare di Wilt Chamberlain. L’anno che segnò la svolta fu il 1959: Russell voleva una rivincita dopo la sconfitta alle Finals dell’anno precedente contro i St. Louis Hawks. Bill migliorò ulteriormente le statistiche e aumentò il suo impatto. Boston volò alle Finals dove c’era la squadra dell’idolo del #6, George Mikan. Per la prima volta, all’ultimo atto della stagione, i biancoverdi ebbero come avversari i Minneapolis Lakers. La serie non ebbe storia, 4-0 e secondo titolo per Russell e compagni. Quel giorno era iniziata ufficialmente la grande dinastia di e, nel contempo, la rivalità con i Lakers. Nell’autunno dello stesso anno, l’evento che cambiò il panorama NBA: il 7 novembre al Boston Garden giunsero in visita i Philadelphia Warriors che potevano contare su un centro rookie che aveva già fatto strabuzzare gli occhi in giro per l’America: in quella data avvenne il primo scontro tra Bill Russell e Wilt Chamberlain.
Sarebbe stata una delle più grandi rivalità della storia. Il leitmotiv, tuttavia, era sempre lo stesso: vinceva Bill. Anche sovrastato a livello statistico, a volte per il rotto della cuffia era (quasi) sempre Russell a tornare a casa con la parte buona del referto. I Celtics dominarono la decade, vincendo 8 titoli consecutivi. I Lakers facevano la parte dell’agnello sacrificale all’altezza delle Finals, con i vari Baylor e West a rimandare l’appuntamento con il meritato e agognato anello. Russell e Chamberlain lottavano come due pugili su di un ring. Wilt segnava molto di più dell’avversario, ma Bill era circondato da compagni migliori, e aveva imparato a contenere il diretto avversario, sfiancandolo in difesa. Nacque la Celtics’ Mistyque, con gli avversari che partivano sconfitti, intimoriti dal Garden e convinti della presenza di certe entità che spingevano fuori dal canestro i loro tiri. Il sigaro di Red Auerbach, acceso quando la partita era in ghiaccio, divenne uno dei simboli di quegli anni leggendari, al pari dei conati di vomito di Russell nel prepartita, causati dalla sua estrema tensione agonistica.
Decisivo più in là nella sua carriera un ottimo rapporto con l’allenatore, dal quale ricevette il testimone nel 1966. Auerbach, infatti, optò per il ritiro nello stesso anno. Bill accettò, dopo aver già vinto nove titoli, il suo duplice ruolo di giocatore-allenatore. Tre anni dopo, nel 1969, Russell decide di ritirarsi dal basket professionistico, all’età di 35 anni, dopo aver vinto altri due titoli in questa straordinaria veste, di cui l’ultimo è forse il più memorabile: l’annata 1968/1969 fu infatti quella della “Last Dance”. Boston era sfinita e sembrava vuoto anche il serbatoio delle motivazioni. Lo stesso Russell appariva diverso più acciaccato e meno affamato anche se fu comunque capace di conquistare 19.3 rimbalzi ad incontro. I Celtics chiusero col peggior record da quando Bill era tra le loro fila. Ancora una volta nei playoffs tuttavia la squadra si trasformò, superando le proprie avversarie e garantendosi un improbabile viaggio alle Finals contro i Lakers. Los Angeles, da quell’anno, poteva contare su Wilt, acquisito in estate dai 76ers. Il pronostico sembrava davvero a senso unico, a maggior ragione dopo il doppio vantaggio dei californiani. Un buzzer beater di Sam Jones consentì a Boston di far venire qualche dubbio in più agli avversari, permettendo alla propria squadra di rimanere viva.
Per l’ennesima volta si giunse a gara-7. Il proprietario dei Lakers, Jack Kent Cooke, fece distribuire un volantino con il programma che si sarebbe tenuto dopo la premiazione della propria squadra, facendo appendere dei palloncini al soffitto del palazzetto. Era la suprema motivazione, un invito a battersi alla morte contro tutto e tutti. I Celtics partirono a razzo, ma Los Angeles, guidata da un mostruoso Jerry West, recuperò. Chamberlain fu costretto ad uscire per un problema al ginocchio e quando chiese al proprio allenatore di rientrare, si vide opposto un secco no. Don Nelson infilò il tiro più importante, che consegnò a Bill ed a Boston l’undicesimo anello in tredici anni. In più Russell chiudeva una carriera leggendaria con un record altrettanto difficile da dimenticare: dieci gare-7 in carriera ed altrettante vittorie.
Negli anni seguenti i rapporti con stampa e tifosi si inasprirono. Russell non volle presenziare né alla cerimonia di ritiro della propria maglia, né a quella dell’introduzione nella Hall of Fame: non riusciva a farseli andare a genio. Anche con Chamberlain non parlò per anni, ma venne anche a galla la verità sull’effettivo rapporto tra i due. Quella che sembrava essere una rivalità era una grandissima amicizia, alimentata da tante cene e telefonate, che sarebbe terminata solo con la morte di Chamberlain nel 1999, quando Bill fu la seconda persona ad essere informata della scomparsa. All’inizio del nuovo millennio, l’immagine di Bill Russell è stata completamente rilanciata. Dapprima venne eletto, in maniera del tutto scontata, tra i 50 migliori giocatori della storia, ricevendo un caloroso saluto dalla folla che assisteva all’All Star Game di Cleveland. Poi, il 6 Maggio 1999 Boston riorganizzò una cerimonia per il ritiro della maglia del giocatore. Questa volta Bill era presente, si commosse per l’ovazione e l’affetto dimostrato dai tifosi, sancendo la pace con quella città a cui resterà per sempre legato. L’NBA non si è certo fermata qui: dal 2009 il premio di MVP delle Finals è stato rinominato proprio “Bill Russell NBA Finals Most Valuable Player Award” e nel 2010 il Presidente Barack Obama l’ha insignito della Presidential Medal of Freedom.
Le grandi star della nostra generazione, ma anche quelle dell’epoca immediatamente precedente, hanno mostrato grandissimo rispetto verso quest’uomo, emblema tanto della NBA quanto, soprattutto, del riscatto sociale della comunità afroamericana, di cui divenne uno dei primi simboli e uomini chiave. Ordinaria amministrazione, per colui che ha ridefinito, probabilmente per sempre, il concetto di “vincente”.