9 settembre 1972, siamo all’Olympische Basketballhalle di Monaco di Baviera. Si consuma l’ultimo possesso della finale Olimpica della pallacanestro tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America. Al suono della sirena Dwight Jones, Tom McMillen e soprattutto coach Henry Iba alzano le braccia al cielo, è finita, sono otto su otto, regge l’imbattibilità nei giochi e soprattutto è evitata la figuraccia nazionale in piena guerra fredda. Sarebbe potuta finire così, in America sono tanti a ritenere questa la vera conclusione, ma non è così che entrò negli annali una delle finali più controverse della storia della pallacanestro.
Una finale da giocare sulle ceneri del massacro di quattro giorni prima, vince il volere del presidente del CIO Avery Brundage chiaramente intento a far andare avanti lo spettacolo olimpico. In tempi più sereni il mondo del basket aspettava una sola partita, gli USA imbattuti a livello olimpico da Berlino 1936 a Città del Messico 1968 si sono messi in tasca tutti gli ori assegnati dalla pallacanestro maschile. Dall’altra parte l’URSS, rivale annunciata, oro Mondiale nel 1967 e undici titoli europei in dodici edizioni. Manca solo il titolo a cinque cerchi e per riuscire nell’impresa la panchina viene affidata a coach Vladimir Kondrashin che ha già battuto gli Stati Uniti, a Torino nella finale delle Universiadi del 1970.
LA PARTITA – In contrapposizione anche i due roster, gli Stati Uniti non potendo portare giocatori NBA – allora il regolamento vietava l’utilizzo di giocatori professionisti – si presentarano con la rosa collegiale più giovane di sempre. L’Unione Sovietica invece aggirò la regola listando giocatori del calibro di Sergej Belov e Modestas Paulauskas come soldati e lavoratori, di conseguenza cestisti amatoriali. L’URSS era una sola, ma le divisioni dello spogliatoio potevano essere una grande incognita per Kondrashin che si è trovato a gestire caratteri non facili. Il blocco dei russi era composto da Sergej e Aleksandr Belov, Aleksandr Boloshev, Ivan Dvorny e Gennadi Volnov. A completare il roster: i georgiani Mikheil Korkia e Zurab Sakandelidze, gli ucraini Anatoli Polivoda e Sergej Kovalenko, il bielorusso Ivan Edeshko, il kazako Alzhan Zharmukhamedov e il lituano Modestas Paulauskas, capitano della squadra. Prima della finale va tutto come deve andare, entrambe fanno 7-0 nel proprio girone. L’Unione Sovietica in semifinale batte Cuba 67-61 e gli Stati Uniti liquidano con un netto 68-38 l’Italia di coach Giancarlo Primo. Agli azzurri due giorni sfuggì il bronzo per un canestro (66-65 Cuba).
Arriva dunque la finale del 9 settembre. Per volere dei network americani si gioca alle ore 23.45, è la partita che tutto il paese attende e la sconfitta non è contemplata. Mettendo da parte tradizione e riducendo il tutto ai valori in campo è però l’URSS la vera favorita con uomini già abituati a giocare sui grandi palcoscenici europei. Quando la parola passa al parquet sono proprio i sovietici ad assestare il primo break di 0-7 fondamentale per il 21-26 della pausa lunga. Ad inizio ripresa gli USA perdono in pochi minuti Dwight Jones e Jim Brewer, il primo risponde alle provocazioni Mikheil Korkia e viene cacciato dal campo, il secondo cade rovinosamente a terra dopo una spinta di Aleksandr Belov e non è in grado di proseguire. In pochi minuti la banda di coach Iba cade a -10 e sembra finita. Gli americani però non ci stanno e non vogliono prendere in considerazione l’idea di perdere davanti agli occhi della nazione contro i loro rivali più grandi, un moto d’orgoglio riapre la partita e a 40 secondi dal termine Jim Forbes sigla il canestro del -1 (48-49). L’URSS fa scorrere il cronometro ma quando conta Aleksandr Belov viene stoppato da Tom McMillen, la sfera termina nelle mani di Doug Collins che viene steso nella corsa verso il ferro, sono due liberi. In lunetta Collins è freddissimo, due ne prende e altrettanti ne segna, sorpasso firmato, il cronometro segna tre secondi da giocare e il tabellone indica 50-49 per gli USA.
I TRE SECONDI FINALI – I giocatori sovietici hanno tra le mani il possesso che vale quattro anni di lavoro, ma neanche il tempo di rimettere in gioco e Kondrashin schizza in campo inveendo contro l’arbitro brasiliano Renato Righetto. Il tecnico vuole utilizzare il time-out che aveva chiamato, in questi istanti il fischio di Righetto quando manca un secondo si sovrappone alle urla del pubblico facendo partire per pochi attimi la festa americana. In campo irrompe il segretario FIBA William Jones che dà un chiaro ordine, si deve rigiocare il possesso con tre secondi sul cronometro. Teoricamente Jones non avrebbe il diritto di fare ciò, ma nella pratica si appella al buon senso garantendo giustizia in un match ormai scappato di mano gli arbitri. E’ deciso, si rigioca, ma appena l’URSS mette la palla in campo suona la sirena, questa volta gli americani sono convinti di poter festeggiare una vittoria sofferta, ma è subito chiaro che il cronometro non sia stato ripristinato a tre secondi. Scoppiano nuove proteste ed interviene ancora una volta il Segretario Jones ribadendo che si deve ripartire da i tre secondi che mancavano quando Kondrashin chiese il time-out. Tentativo numero tre, Edeshko lancia più lungo che può, Kevin Joyce e Jim Forbes pasticciano e si scontrano in maniera claunesca. Sotto canestro resta solo Aleksandr Belov che segna alla sirena regalando l’oro all’Unione Sovietica.
IL RICORSO AMERICANO – Mentre i sovietici urlano di gioia succede di tutto, questa volta esplode la protesta della squadra americana e l’arbitro Righetto si rifiuta di mettere a referto il 50-51 finale. Gli USA fanno ricorso, inutile entrare nel merito della discussione per un verdetto deciso dalle alleanze politiche. Rafael Lopez e Claudio Coccia (Porto Rico e Italia) si schierano con gli americani mentre Ferenc Hepp (Ungheria), Adam Bagłajewski (Polonia) e Andres Keiser (Cuba) forti della maggioranza rigettano il ricorso. Gli uomini di Iba rifiutano in tronco il verdetto, non salgono sul podio e non ritirano le medaglie d’argento, ancora oggi custodite nel caveau del CIO a Losanna.