Probabilmente la frase più adatta su quel 27 aprile 2014 l’avrebbe trovata lui, maestro di tormentoni e pioniere di quella strategia che sempre più spesso vede allenatori intenti ad accentrare l’attenzione su sé stessi per liberare i calciatori dalla tensione. Chissà quale incredibile aforisma avrebbe potuto inventare Vujadin Boskov sulla sua morte, arrivata all’età di 82 anni, sei anni fa esatti: “Fine è quando arbitro fischia”, parafrasando la più celebre delle sue frasi. Troppo banale probabilmente per quella malattia terribile che è l’Alzheimer. Troppo scontata forse per uno come lui, sfuggente uomo mediatico, conosciuto anche dai più giovani in virtù delle sue popolarissime massime sul mondo del calcio. Nel suo ricchissimo palmares c’è anche un argento olimpico a Helsinki 1952 dopo il ko in finale contro l’Ungheria di Puskas. Dieci anni dopo l’esperienza olimpica, è uno dei primi slavi a trasferirsi in Serie A, con la maglia della Sampdoria. La prima esperienza da calciatore in blucerchiato è in chiaroscuro: tredici presenze e un gol. Tornerà da allenatore e vincerà (quasi) tutto. La Coppa Italia, due volte (87/88, 88/89), la Coppa delle Coppe (89/90), lo Scudetto (90/91) e la Supercoppa Italiana (1991). Nel mezzo il grande rimpianto, quella finale di Coppa dei Campioni raggiunta due volte prima col Real Madrid (1981) e poi con i blucerchiati (1992) senza riuscire a trionfare. Poi l’esperienza di una stagione alla Roma dove chiuderà al decimo posto e una finale persa di Coppa Italia riuscendo comunque a lasciare il segno permettendo al 16enne Francesco Totti di debuttare nel massimo campionato italiano. Quindi il Napoli per due stagioni, il Servette in Svizzera e di nuovo la Sampdoria. “Vi allenerei anche gratis”, disse quando fu raggiunto dalle indiscrezioni di un nuovo interesse blucerchiato dopo il divorzio anticipato da Menotti. Merito anche della presenza in rosa di Sinisa Mihajlovic, suo giocatore già alla Roma. Alla fine sarà nono posto e un addio in estate che non ha mai intaccato il ricordo. Infine l’esperienza a Perugia dopo il ‘Caso Castagner’ e l’ultima panchina in Nazionale. L’ultima, folle Jugoslavia partecipò agli Europei del 2000 venendo eliminata ai quarti di finale. Fu il canto del cigno per un allenatore mai dimenticato. Quando morì, il tifo organizzato del Genoa gli dedicò poche righe: “Addio Vujadin fiero e leale acerrimo ‘nemico’, testimone di un calcio che non esiste più”. Allora è proprio vero che, oggi come ieri, Zio Vuja manca proprio a tutti.