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La magia dello sport ha il potere di cementificare l’orgoglio di una nazione, di sintonizzare il battito dei cuori su un’unica frequenza, di rappresentare un trampolino di lancio per giovani promesse emergenti e rendere imperitura la leggenda dei campioni. Lo sport ha però anche il potere di consacrare l’ascesa politica ed economica di un paese che si appresta a diventare sempre più leader della scena mondiale. I Giochi della XXIX Olimpiade di Pechino, i primi ad essere prodotti e trasmessi in tv ad alta definizione, sono passati alla storia proprio come l’aureo riconoscimento di cui la Repubblica Popolare Cinese necessitava, dopo sforzi pagati a caro prezzo ed una scalata al successo imbastita da anni, per entrare a far parte di diritto tra le nazioni egemoni. Un ruolo che la Cina è riuscita a ritagliarsi a fatica: dopo aver avanzato la propria candidatura per ospitare i Giochi del 1993, svoltisi poi a Sidney, il governo cinese ha coronato il proprio riscatto nel 2008, sbaragliando la concorrenza di Istanbul, Parigi, Osaka e Toronto, e fregiandosi del vanto di essere stata la terza nazione asiatica ad ospitare la competizione a cinque cerchi (dopo Tokyo 1964 e Seoul 1988).
Un’Olimpiade, quella di Pechino 2008, all’insegna di campioni, record frantumati, miti consacrati, ma soprattutto polemiche e conflitti radicati nella coscienza nazionale ed ancora non del tutto sopiti. L’altro, innegabile volto della medaglia, mostra una realtà ben diversa rispetto a quella che ci propinano le versioni ufficiali. Se da un lato la Cina ha voluto dimostrare il proprio potere economico azionando la più grande macchina mai messa in moto (si tratta dell’Olimpiade più costosa della storia con un bilancio di oltre 40,9 miliardi di dollari spesi tra il 2001 ed il 2007 e più di 11.000 volontari coinvolti), dall’altro non ha fatto altro che evidenziare le innumerevoli e profonde falle con le quali l’invulnerabile governo cinese è costretto da anni a fare i conti. Con gli implacabili riflettori dei mass media puntati, la Cina è diventata croce e delizia di se stessa: l’indiscussa egemonia ribadita sul piano sportivo, che ha visto la nazione di casa imporsi nel medagliere olimpico con un bottino di ben 100 medaglie (51 ori, 21 argenti e 28 bronzi), scalzando le dirette rivali Stati Uniti e Russia, non ha avuto l’effetto però di far calare il sipario sulla questione tibetana, che ha assunto per la prima volta rilievo mondiale, né sulle profonde contraddizioni di natura sociale e politica in cui lo stato versa. E così, sotto i fiumi di denaro che scorrono finanziando le fondamenta di autentiche perle architettoniche quali il National Stadium, il Laoshan Velodrome, l’Olympic Green ed il Wukesong Baseball Field, e le notevoli migliorie apportate nell’ambito de settore urbano ed edilizio grazie alla costruzione del terminal aeroportuale più grande del mondo ed un’efficiente linea di viabilità, destinati a restituire un nuovo inedito volto alla città, si stagliano gli spettri della soppressione della libertà di stampa, della censura, del pugno di ferro contro gli oppositori, della contravvenzione ai diritti civili e dell’inquinamento ambientale.
Persino la tradizionale cerimonia dell’accensione della fiaccola olimpica non si è svolta secondo i canoni prestabiliti: accesa ad Olimpia dall’ex ginnasta cinese Li Ning il 24 marzo 2008, giunge a Pechino dopo un tortuoso iter di oltre 137.000 km in 130 giorni (il viaggio più lungo dai tempi di Berlino 1936), passando per l’Everest solo in seguito all’adozione di numerose misure restrittive imposte dal governo cinese che temeva l’ondata di manifestazioni pro Tibet ed a forti pressioni esercitate sul vicino Nepal. L’inquinamento, a seguito del boom economico intrapreso dalla Cina, è invece una problematica che accompagna lo sviluppo stesso della nazione, che ha trovato il proprio imperativo categorico nella consacrazione del progresso. Haile Gebrselassie, primatista mondiale nella maratona, addirittura rifiutò di prendervi parte perché preoccupato dell’elevato tasso di inquinamento che avrebbe potuto compromettere la salute e le prestazioni degli atleti in gara.
L’Olimpiade di Pechino inizia sotto il segno di una millenaria tradizione, a testimoniare l’inscindibile vincolo che lega la Cina ai suoi costumi folkloristici ed alla propria cultura, ritenuta un tesoro inestimabile da preservare: la cerimonia di inaugurazione, quasi in una sorta di rito apotropaico, si svolge l’8 agosto del 2008, alle ore 8:08 in punto. Originale anche la scelta della tradizionale mascotte con la quale premiare gli atleti vincitori: 5 Fuwa (bambole della fortuna cinesi) ognuna portatrice dei colori di un cerchio olimpico ed associata ad un elemento ben distinto della cultura cinese; le prime sillabe dei nomi lette di seguito formano la scritta “Beijing Huanying Ni” (Pechino vi dà il benvenuto).
Le note della canzone che squarcia il silenzio del National Stadium, un grandioso spettacolo senza precedenti con la partecipazione di un cast di 15.000 persone diretto dalla regia dell’indimenticato Yimou in “Lanterne rosse”, il nucleo del corpo di ballo che si snoda attorno alla simbologia del numero 8, ritenuto fortunato, e che ruota in un eterno ritorno senza posa attorno alle 4 grandi invenzioni del popolo cinese (carta, stampa a caratteri mobili, polvere da sparo, bussola), testimoniano con quale sentimento la Cina ospiti la competizione: un desiderio di avvicinarsi all’occidente ma al tempo stesso distaccarsene irreparabilmente tenendo sempre vivo il fuoco dei propri tratti peculiari. Se i padroni di casa si rendono interpreti di un vero e proprio exploit dominando senza concorrenza alcuna il Water Cube nei tuffi, specialità nella quale alla Cina riesce l’impresa di aggiudicarsi 7 medaglie d’oro sulle 8 disponibili, Pechino 2008 passerà alla storia come l’Olimpiade di Michael Phelps. Lo squalo di Baltimora, quel gigante americano con gli occhi emozionati di un bambino che ha sconvolto il mondo del nuoto ancora legato alla divinizzazione di Thorpe, dimostra quanto sia un gioco da ragazzi, in perfetta linea con la numerologia cinese, spingersi oltre i confini per realizzare ciò che a nessun atleta era mai riuscito prima: con un colpo di coda i 7 ori di Mark Spitz nell’Olimpiade di Monaco ’92 vengono spazzati via, il nuovo record viene portato ad 8. Ad ogni virata, ad ogni fulminea bracciata il miglior crono è destinato a cedere sotto il peso di una nuova divinità: prima i 200 stile libero (regno di Thorpe), poi i 200 misti, i 200 farfalla, le galattiche staffette spalla a spalla con Lochte, infine i 400 misti con tanto di record mondiale in una battaglia ingaggiata contro se stesso ed i propri limiti.
In Italia, a far dimenticare la medaglia di legno del ginnasta Igor Cassina, ci pensano Schwazer, Cammarelle ed una straordinaria Josefa Idem. La stella dell’altoatesino brilla imperiosa nel cielo di Pechino, dedicando il successo alla fidanzata Carolina Kostner e regalando all’Italia un oro storico nella 50 km marcia che mancava da ben 44 anni: un lungo digiuno difficile da spezzare che perdurava dalle gesta di Abdon Pamich. L’orgoglio italiano si consacra anche nella categoria dei pesi massimi: 20 anni dopo Parisi, Roberto Cammarelle si porta a casa il titolo, la medaglia del metallo più prestigioso e la soddisfazione di aver surclassato l’avversario Zhang Zhilei, strappando ai cinesi l’oro dopo il sonoro ko al quarto round che ricorda, cinematograficamente parlando, l’incontro tra Rocky ed il colosso russo. Nella canoa, le certezze azzurre si chiamano Josefa Idem: la rabbia, l’orgoglio, la determinazione e la passione la portano a soli 4 millesimi dal festeggiare il gradino più alto del podio, ma regalano a se stessa e ad una nazione intera qualcosa di molto più prezioso: non uno spettacolare argento giunto a 43 anni, né il raggiungimento dell’ennesimo record olimpico (con 5 medaglie alla settima olimpiade disputata, eguaglia la collega Birgit Fischer e la nuotatrice statunitense Dara Torres), ma la consapevolezza di quanto sia importante nella vita oltre che nello sport, anche se talvolta difficile, farsi guidare da un sogno e dalla propria perseveranza, dalla filosofia dell’ “hic e nunc”. Se i “big” azzurri stentano a decollare (Antonio Rossi, in veste di portabandiera, non riesce nell’impresa di centrare la medaglia nel k4, Magnini delude nei 100 sl, Andrew Howe e Vanessa Ferrari, reduci da infortuni, non si dimostrano all’altezza del proprio nome), l’Italia è pronta a gioire per le inattese medaglie di Minguzzi (oro nella lotta greco-romana), Sarmiento (argento nel Taekwondo) e Giulia Quintavalle (oro nel judo) e per la reazione da grande campionessa di Federica Pellegrini, che si rialza dopo la cocente delusione nei 400 sl (oro alla Adlington e solo un clamoroso quinto posto per l’azzurra) e va a prendersi prepotentemente il riscatto nei 200, beffando al fotofinish la slovena Isakovic.
L’Olimpiade di Pechino ha avuto il merito di scrivere a caratteri cubitali una pagina indimenticabile per il baseball: gli annali della Corea del Sud ricorderanno questo evento con un’emozione che si rinnoverà ad ogni anniversario, dopo la vittoria della prima medaglia d’oro nella storia degli asiatici. La terra cinese, patria di miti e consacratrice di eroi, spalanca le porte dell’Olimpo anche a Usain Bolt e Leo Messi: due fenomeni senza precedenti, due personalità estremamente differenti tra loro per cultura, provenienza e disciplina praticata, ma accomunati da un unico desiderio: la voglia di vincere e diventare il simbolo di un’intera nazione. Campione nei 100, 200 e 4×100 metri con tanto di primato mondiale, la velocità del fulmine giamaicano è direttamente proporzionale alla sua grandezza d’animo: sotto il peso della corona e la consapevolezza di avere le ali sotto i piedi, la vittoria più bella di Bolt non arriva dall’ennesimo traguardo tagliato su una pista, ma dai 50.000 dollari che l’atleta devolve in quella stessa occasione ai bimbi colpiti da terremoto del Sichuan. Intanto il mondo del calcio è pronto ad applaudire le raffinatezze tecniche di Messi che fa impazzire l’Argentina e non solo: l’assist della Pulce per il pallonetto di Di Maria che vale l’oro contro la Nigeria, ricorda l’epica finale mondiale dell’86, quando in un magico review, Burruchaga, su assist di Maradona, regalò un sogno alla Seleccion, che si riconfermò sul tetto del mondo dopo Atene 2004. Un’Olimpiade che, da appassionati e non, ricorderemo per molti motivi: dal sogno infranto della partecipazione di Pistorius, alla storica finale nel basket tra la Spagna ed un rinnovato “Dream Team” statunitense (oramai orfano di Jordan ma con top player del calibro di LeBron James, Kobe Bryant e Carmelo Anthony in un incontro mozzafiato conclusosi con la vittoria americana per 118 a 107), dal riscatto cinese in termini geopolitici ad un occhio attento del mondo sulle questioni dei diritti umani e la consapevolezza che lo sport, in ogni sua forma, può rappresentare una privilegiata via d’accesso alla comunicazione e ad una rinnovata intesa tra i popoli.