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A far l’America più grande mi sono impegnato/Perciò il russo prima, poi il polacco ho liquidato”. Inizia così la non indimenticabile filastrocca in rima composta da Cassius Clay, non ancora Muhammad Ali, dopo la vittoria del titolo olimpico nei mediomassimi ai Giochi di Roma del 1960. La leggenda del pugile, scomparso a 74 anni in un ospedale di Phoenix in Arizona, inizia una notte di settembre al PalaEur davanti a 15mila spettatori. Clay sul ring balla leggero. Una forza della natura. Nei quarti demolisce il russo Shatkov, che a Melbourne aveva vinto l’oro nei medi. Poi chiude la sua cavalcata trionfale contro Zbignew Pietrzykowski. Quello che era stato definito dalla stampa come “ambasciatore ufficioso dello zio Sam” una volta tornato negli States si vide negare l’accesso in un locale a causa del colore della pelle. E la medaglia d’oro vinta a Roma finì nelle acque dell’Ohio. “Se non mi servi nemmeno ad entrare in un bar, sei inutile”, disse. Al pugile di Louisville è stata consegnata una copia della medaglia dal Cio ad Atlanta nel ’96, quando, già minato dal Parkinson, accenderà il braciere olimpico commuovendo il mondo.
Non si è mai lasciato chiudere in un angolo, Cassius Clay, diventato Muhammad Ali dopo la conversione all’Islam. Il peso massimo che rifiutò di partire per il Vietnam, non ha mai abbassato la guardia. Nonostante la malattia, si è sempre impegnato di persona in numerose opere di beneficenza, anche in Iraq, a favore dei bambini leucemici, arrivando ad essere candidato nel 2007 come premio Nobel per la pace. Diritti umani, campagne umanitarie, iniziative anche in collaborazione con le Nazioni Unite, e sempre lo stesso rifiuto della guerra. “I campioni – come recita il suo abusato aforisma – non si costruiscono in palestra ma da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”. Emanuela Audisio, giornalista di Repubblica, ha spiegato che senza di lui non ci sarebbe stato Obama alla Casa Bianca. Enrico Mentana ricorda in un post su Facebook le notti passate a seguire i suoi grandi match con Frazier e con Foreman: “Sei stato quello che dicevi di essere, gridandolo in faccia ai tuoi avversari: il più grande”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò che ricorda come la sua leggenda “sia cominciata a Roma nel ’60” quando quel pugile ribelle del Kentucky si prese per sempre il centro del ring e del Novecento sportivo.