Così piccolo, così immenso. E’ alto 1.69, Bruno Conti, e la statura fu dall’inizio il primo oggetto di giudizio per ogni addetto ai lavori prima che le qualità tecniche sovrastassero quelle fisiche. Non abbastanza però per Helenio Herrera che nel 1968 giudicò il 13enne Conti e lo bocciò: “Tecnicamente è bravo ma con quel fisico non potrà mai fare il calciatore“, ha raccontato ‘Marazico’ nella sua autobiografia “Il calcio, la mia vita”. Per raccontare la storia di Bruno Conti bisogna però partire da lontano, circa dieci anni prima della sua nascita, e da Napoli, luogo che ha rischiato più volte di incrociare il suo destino. Qui i militari statunitensi passavano il tempo libero a giocare a baseball quando un sottotenente di nome Alberto Fasano li vide, si innamorò di quello sport e divenne il pioniere del baseball di Nettuno fondando la storica società cittadina. Con la maglia e i guantoni del Nettuno Baseball, Bruno Conti mosse i primi passi.
Era talentuoso ma legato alla sua terra, al punto da rifiutare un’offerta dalla California: “Un giorno due dirigenti americani del Santa Monica si presentarono a casa mia – ha raccontato nel libro – Chiesero a mio padre di potermi ingaggiare: ‘lo faremo studiare e diventerà una star del baseball’. Mio padre fu sorpreso ma non accettò: ‘Mi dispiace ma Bruno da Nettuno non si muove, a costo di fargli fare il muratore tutta la vita”. Questione di sliding doors. Ma alla fine Bruno da Nettuno si muoverà eccome. Lo farà per la Roma, alla seconda occasione nel 1973. Stavolta la porta si apre e non si chiuderà più, se non per due esperienze al Genoa: una di formazione, l’altra di esilio forzato per portare Pruzzo in giallorosso.
L’impatto del gracile adolescente abituato ai ritmi lenti della città di mare con la metropoli è però traumatico: “Avevo paura di tutto e di tutti – scrisse – Ricordo che in stazione dondolavo continuamente con la busta di plastica nella quale avevo messo le scarpe da gioco pronto a sbatterle in faccia a chiunque mi si fosse avvicinato con cattive intenzioni. Sudavo freddo, soprattutto la sera. Al treno per Nettuno cambiavano sempre binario e avevo paura di restare sul marciapiede sbagliato. Poi una volta salito sul treno, cercavo con lo sguardo qualche mio concittadino, per raggiungerlo, stargli vicino e sentirmi protetto“. Erano anni duri per la Roma, costretta a lottare per non retrocedere. Poi la crescita, non solo tecnica ma anche societaria, a partire dalla costruzione del Centro Sportivo di Trigoria che da Nettuno dista poco più di mezz’ora. Una svolta. Scatta l’era Viola e la seconda avventura di Liedholm, un maestro per Conti nonostante qualche piccolo screzio. Roba di campo. Ma il giorno dell’addio al calcio, Liedholm gli disse: “Se ti fermi tu, si ferma il calcio”. E così fu perché il ‘Bruno Conti Day’ si svolse il giorno dopo la finale persa di Coppa Uefa contro l’Inter. Legittimo immaginarsi una scarsa risposta di pubblico e invece ad affollare l’Olimpico il 23 maggio 1991, c’erano 80.000 spettatori. Alla fine della cerimonia le lacrime e l’insistenza nel portare Falcao con lui sotto la Curva Sud a sei anni di distanza da Roma-Liverpool per rinsaldare una pace, mai veramente in discussione in realtà, tra il brasiliano e il pubblico che più l’ha amato. Anche in quel gesto c’è l’essenza di Bruno Conti. Un campione che non ha mai voluto accentrare l’attenzione su di sé, col sorriso sempre stampato sul volto e con la mano sempre tesa verso il compagno e la sua squadra. Disse no a Maradona che tanto spinse per portarlo a Napoli, apprese con stupore di essere stato scelto come miglior giocatore del Mondiale 1982 da Pelè in persona. Da responsabile del settore giovanile è rimasto dietro le quinte, accettando ogni decisione della società in silenzio e portando a Trigoria un numero incredibile di talenti. Da allenatore condusse la Roma alla salvezza nella disastrosa stagione 2004/05. Nel mezzo della carriera spicca quel titolo mondiale, poi il rimpianto della finale persa di Coppa dei Campioni ma anche lo Scudetto giallorosso e cinque coppe italia. Ma la promessa a se stesso l’ha vinta: “Un giorno Scopigno chiese alla Primavera tre ragazzi per un’amichevole ad Arezzo, l’allenatore fece il mio nome e mi aggregai ai ‘grandi’. Ad Arezzo giocai solo quindici minuti ma mi sembrarono un’eternità. Quel giorno rientrando a Nettuno mi convinsi che sarei rimasto giallorosso per tutta la vita“. Questione di sliding doors.