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“Andrà tutto bene”. Ce lo stiamo ripetendo in continuazione, guardandoci negli occhi. Lo stiamo scrivendo ovunque: su carta, sui social, su lenzuola giganti colorate e appese ai nostri balconi. Qualunque cosa accada, nulla sarà più come prima. Il prima e il dopo, con una pandemia manzoniana a fare da spartiacque. Lo sport, ancora una volta, si presenta come la più significativa metafora di vita: ti insegna ad accettare il verdetto del campo, a rispettare l’avversario e ad inchinarti se più forte. Cadere e rialzarsi. Fa male, certo, ma ce la faremo. Come i tifosi milanisti, ad esempio, che da quella notte del 25 maggio 2005 pensavano davvero di non riprendersi più. Ma… c’è un ‘ma’. Il prima e il dopo. Dopo Istanbul c’è sempre Atene.
Serginho, alto. Hamann, gol. Pirlo, parato. Cissé, gol. Tomasson, gol. Riise, parato. Kakà, gol. Smicer, gol. Shevchenko si avvicina lentamente al dischetto, gli occhi non sono quelli di Manchester. Lo sappiamo tutti come andrà a finire, in curva c’è un silenzio assordante. Dudek si agita come Grobbelaar all’Olimpico di Roma nel 1984, fa un passo avanti e para. Finita. Ci guardiamo increduli, con le mani nei capelli. “È successo davvero?”, chiedo con un filo di voce al mio compagno d’avventura. “Si”, mi risponde in lacrime. Io vorrei piangere, ma non riesco. Sfiliamo via lentamente, senza dire una parola. Tra qualche ora c’è il volo che ci riporta a Roma. Ho 16 anni e frequento il terzo anno di liceo scientifico. “Le cose vanno bene, non sarà un problema saltare un paio di giorni di scuola”. Vocina maledetta. “Mai più – mi ripeto mille volte sull’aereo per Fiumicino – mai più”.
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Aprilia, 24 aprile 2007. Sono passati due anni da quella notte maledetta. A scuola tutto ok, in amore si vive alla giornata e la salute non manca (tranne i brufoli). Fumo nervosamente (a diciannove anni, maledizione) facendo avanti e indietro nella mia stanza. Abbiamo appena perso 3-2 in casa del Manchester United la semifinale d’andata. Risultato e sensazioni per la gara di ritorno sono quelli giusti. Accendo l’ennesima sigaretta, prendo il telefono e chiamo. “Milan Club? Sono Andreoli. Biglietti per Atene? Si, so che è presto e che scaramanticamente non si fa ma vorrei bloccarlo in caso”. “Non avevi detto ‘Mai più?’”, si intromette la vocina. “Si – le rispondo – però potrebbe esserci di nuovo il Liverpool”. “Resta a casa”, prosegue. “No, restaci tu!”. Al ritorno giochiamo la partita perfetta: 3-0. Tutti ad Atene.
I giorni prima della partenza sono un’odissea. Dentro e fuori. Arrivo addirittura a credere che sia meglio non partire, che un acquirente per il biglietto lo trovo perché “tanto perdiamo anche questa”. Manca poco agli esami di maturità e farli coincidere con la seconda sconfitta consecutiva in una finale di Champions sarebbe una macchia indelebile da cancellare dal libro dei ricordi. Le risate dei compagni di classe si sprecano, i loro “buona fortuna” sussurrati a denti stretti si fanno sempre più insistenti. Ormai ci siamo. Al diavolo tutti. Vocine e non. Si parte.
Mercoledì 23 maggio 2007, ore 03.30. Non riesco a chiudere occhio, come messo in preventivo da settimane. Questa volta torniamo il giorno successivo e c’è una notte intera da trascorrere fuori, prima di rientrare a casa. Nello zaino ho una t-shirt di ricambio, biancheria intima, sciarpa d’ordinanza, l’iPod, un libro da leggere (quando?) e qualcosa da mangiare. Arrivo al Club per le 8.30, colazione. Un pullman piccolo ma carico di speranze è pronto a portarci in aeroporto. Siamo sedici e sono uno dei più giovani. I discorsi prima della partenza sono stramaledettamente scontati. In un attimo prendo le cuffie, alzo il volume al massimo e mi isolo nei miei pensieri. Orrendi, chiaramente. Durante il viaggio dormo. Un sonno tormentato, ben peggiore di quello vissuto nelle notti che precedono le versioni di latino. Questa volta, però, non c’è nessuna favola di Fedro da tradurre. C’è una coppa, quella più bella, da riportare a casa.
L’impatto con la capitale ellenica è particolare. Ero già stato ad Atene, con i miei genitori, quando avevo 6 anni. La confusione vissuta al Pireo aveva smosso in me non so cosa ma ricordo bene di essere scoppiato a piangere e di aver continuato per almeno mezz’ora. Il caldo e l’umidità sono quelli di tredici anni fa. “Piangerò ancora?”, mi chiedo. “Piangerai, piangerai…”, risponde la vocina. Subito un problema pratico. Con noi ci sono ben quattro over 70 e pensare di non farli dormire per le prossime 42 ore non è un’ottima idea. Tutte le strutture sono piene. Tutte. Qui non c’è posto, quello è il quartier generale dei ‘Reds’, quell’altro albergo non accetta tifosi (…). Intorno alle 15.30 un losco motel a due stelle ci mette davanti ad un terribile out-out: due camere doppie (destinate ai più attempati del gruppo) e dodici brandine, leggasi bran-di-ne, destinate a noi poveri disgraziati e sistemate all’interno della sala ristorante. L’ordine è chiaro: sloggiare prima delle 06.30, l’ora della colazione. Prendere o lasciare e noi, ovviamente, prendiamo.
Qualche centinaio di metri a piedi e saliamo in metro, destinazione Stadio Olimpico Spyros Louis. La sicurezza interna ha scelto di far viaggiare alternati noi e i tifosi del Liverpool. Saggia decisione. Due fermate più tardi capisco il perché dei finestrini chiusi (e impossibili da aprire) e conseguente asfissia. Eccoli lì, i fanatici della Kop, in attesa del treno successivo. In un amen sui vetri inizia ad arrivare di tutto: lattine vuote, piene, pezzi di legno, frutta, uova. “Ora riparte, vero?”, chiedo ad alta voce aspettando chissà quale risposta. Riparte. Ore 18.00. Alzo gli occhi. Davanti a me un mare di colori. Ci siamo. Sono qui, ancora una volta, per la mia seconda finale consecutiva. Amico che eri con me, ad ascoltare i miei deliri e le mie manie di grandezza senza proferire parola. A rassicurarmi sul fatto che nessuno avrebbe sfondato i vetri. Chi eri? Giuro, non ricordo più il tuo nome. A te, che forse mai leggerai tutto questo, vanno le mie scuse. Il tempo avanza divorando tutto. E noi siamo la sua cena.
La squadra è più debole rispetto a quella che scese in campo in Turchia ma c’è qualcosa di diverso nell’aria. Qualcosa che non si può spiegare, che va oltre la rivincita. Dalla curva osservo ipnotizzato ogni istante del riscaldamento. No, cavolo. Stavolta no. Una botta forte come quella di due anni fa non riuscirei davvero a metabolizzarla. L’inno della Champions mi esplode nelle orecchie e ho la sensazione di riuscire a muovere, con gli occhi, il telone che ondeggia a metà campo. Fischia Fandel. Ogni volta che la palla si avvicina alla nostra aera di rigore mi manca l’aria. Accade più o meno tre volte nei primi cinque minuti. Non reggerò. Fumo, canto, bevo birra da non so quanti bicchieri. Allo scadere della prima frazione di gioco Pirlo ha un’ottima chance su calcio di punizione. Tiro, gol. Goooooooooooooooool! A fine primo tempo, da casa, mi faranno riflettere sull’importanza dell’omero di Filippo Inzaghi. Il Liverpool attacca, ci mette alle strette, ma Paolo e Sandro fanno buona guardia. A poco meno di dieci minuti dalla fine quel fenomeno con il 22 sulla schiena mette Inzaghi davanti al portiere. Un dribbling (“Tira, dai, tira!”) e nella confusione generale vedo la palla entrare in rete lentamente. Una Babilonia tutta rossonera.
Il quarto uomo ha già pronta la lavagnetta luminosa. Calcio d’angolo e Kuyt insacca di testa. Il gelo. Intorno a me scene che nemmeno il miglior Quentin Tarantino avrebbe saputo dirigere meglio. Chi si mette spalle al campo, chi vomita dalla tensione, chi piange, chi tira fuori boccette d’acqua santa provando a benedire decine di sconosciuti. Aspetto in silenzio che passino gli ultimi minuti. Sento triplici fischi ovunque ma non è mai quello giusto. Poi accade. Vendetta. Campioni d’Europa. Il ricordo del rientro in albergo è felicemente offuscato. Entriamo in un pub e prima di darcela a gambe levate dalla paura tre tifosi inglesi ci fermano e ci chiedono di scambiare le nostre maglie con le loro. Sembra una favola, una volta tanto. La brandina, pagata profumatamente, resterà immacolata. Rientriamo all’alba e privo di forze affronto il tour “culturale” del giorno successivo dormendo ovunque. Chi se ne frega, dai, siamo Campioni d’Europa.
Rivivere ogni istante di quella magica notte, ora, chiuso in quattro mura, mi ha fatto sorridere. E riflettere. L’avversario, quello contro il quale noi milanisti abbiamo lottato inconsciamente per due anni, ora ha tutt’altre sembianze. Fa paura, riguarda una nazione intera e sembra davvero imbattibile. Sembra. Un respiro lungo, profondo, come quello prima del fischio d’inizio del 23 maggio 2007. Andrà tutto bene, anche questa volta.
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