di Alessandro Nizegorodcew (tratto dal libro ‘Lemon Bowl, storie di vita e di tennis’)
Vi sono storie che meritano di essere raccontate. Con il sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi. Racconti e aneddoti che, seppur dolorosi, non fanno altro che rinforzare la memoria. Vi sono carriere iniziate proprio qui, sui campi del Lemon Bowl; ma soprattutto vite meravigliose, seppur brevi, che sui nostri campi hanno lasciato un’impronta indelebile. “Cominciò tutto quasi per gioco, nessuno se lo aspettava”. Federico non è un bimbo alto, ma nemmeno così minuto. Maurizio, il papà, lo adora ma è ossessionato: vuole che il figlio diventi un grande tennista. Paola, la mamma, è il faro. Tra i due vi è un legame simbiotico. Il piccolo Fede prende in mano la prima racchetta e non la molla più. Gioca bene, anzi benissimo. Quando il bimbo compie 8 anni un pediatra fiorentino promette a Maurizio: ‘Farò una radiografia al bambino e vi dirò quanto diventerà alto’. Il medico è certo. ‘Raggiungerà i 190 centimetri’. Così sarà, non ci sono errori. La crescita però arriverà tutta insieme (19 cm in un solo anno, causando seri problemi alla colonna vertebrale) e, nelle prime stagioni di tennis giovanile, Federico è piccoletto. Ma nulla può fermarlo. Ha troppa tecnica, è furbo, sa fare tutto. Il suo nome è Federico Luzzi. Nasce ad Arezzo il 3 gennaio 1980 ed è uno dei più grandi talenti mai visti in Italia.
Il Lemon Bowl spegne 40 candeline mentre Federico, che il torneo lo ha dominato da under 12, manca da 15 anni. È il 25 ottobre 2008 quando una leucemia fulminante se lo porta via, a 28 anni. L’ultima vittoria, nello sport che è stato la sua vita, è di pochi giorni prima. In Serie A, difendendo i colori del Tennis Club Parioli, supera in tre combattuti set Alessandro Accardo. ‘Che vita da mediano’, esclama uscendo dal campo. Ma a chi, subito dopo il match, gli fa notare un paio di ‘luzzate’ (neologismo nato nel circuito per sottolineare colpi impossibili, spesso ‘strettini’ impensabili, che solo Federico sapeva prima pensare e poi realizzare), risponde con il più grande dei sorrisi: ‘Ah, l’hai viste? Belle, eh?!’. La bellezza, nel gioco, per Federico è importante. Nella sua carriera accade di tutto, ma sono gli infortuni alla spalla a impedirgli di non andare oltre il (comunque ottimo) best ranking di numero 92 ATP. Una cinquantina di partite giocate nel circuito maggiore, due vittorie memorabili contro Clement e Arazi nel 2001 al Foro Italico, il successo in Coppa Davis contro la Finlandia e tanto altro ancora. Quando Luzzi va in campo, il pubblico si diverte.
“Mi nutro della gioia che il suo ricordo sia, in tantissime persone, così radicato”. A raccontare la vita di Federico è mamma Paola, all’anagrafe Paola Cesaroni, che ha dedicato intere stagioni ad accompagnare Fede nei tornei giovanili per poi portare, negli ultimi 15 anni, il nome del figlio in giro per il mondo tra l’Associazione Fedelux e l’AIL Arezzo Federico Luzzi ONLUS. “Ho vissuto ogni istante della carriera giovanile di mio figlio, è stato un viaggio bellissimo, a partire proprio dal Lemon Bowl, che Federico era felicissimo di aver vinto”.
Ovunque vada, tra gli 11 e i 14 anni, torna a casa con la coppa. Vince praticamente sempre. Al Lemon Bowl gioca due volte, sempre da under 12. Al primo tentativo, nel 1991, si ferma in semifinale contro il fortissimo Dario Sciortino, che si impone 6-2 6-1. Nel percorso del torneo Luzzi perde spesso il secondo set per poi chiudere nettamente nel parziale decisivo. Maestri e genitori pongono la domanda al ragazzo: ‘Come mai hai quei cali a metà partita?’. Risposta eloquente: “Io mi diverto a giocare, se vinco in due set sto in campo troppo poco. Dai, fatemi andare al terzo”. Il calo di attenzione è volontario. La passione per il tennis è spasmodica.
Pane e tennis, dalla mattina alla sera. “Federico amava questo sport a dismisura sin da piccolo, andava sempre a letto con la racchetta”. Ed è bravissimo anche a scuola. Porta a casa sempre ottimi voti. Non c’è quasi bisogno di arrabbiarsi e di punirlo: “Ma quelle poche volte che accadeva gli dicevo ‘Ok, ti sei comportato male, quindi oggi non vai a tennis’. Bastava privarlo del suo sport per una giornata per rimetterlo subito in carreggiata. Era la mia arma”.
Mamma Paola c’è sempre, in ogni torneo. “Ero sempre molto positiva, fiduciosa, ma soprattutto avevo la capacità di assistere ai match schermando le emozioni: nessun segno, nemmeno impercettibile. Il padre purtroppo non gli dava serenità. Aveva grandi aspettative di vittorie e trasmetteva a Fede nervosismo e scarsa tranquillità”. In alcuni casi papà Maurizio deve addirittura seguire i match dietro ai teloni, per non farsi vedere. “Federico voleva che io fossi sempre lì con lui, avevamo un rapporto unico”. A 11 anni si presenta a Lido di Camaiore per la finale contro un ragazzo molto più prestante fisicamente e nettamente favorito. È il momento di una scommessa tra mamma e figlio: ‘Se vinci mi faccio il bagno al mare vestita’, esclama Paola. Federico gioca benissimo e vince, contro pronostico. I due sono in auto, stanno rientrando a casa. “A quel punto ho parcheggiato sul lungomare e siamo andati in spiaggia. Mi sono tolta jeans e maglietta e sono entrata in acqua”.
Fede non può credere ai suoi occhi.
‘Ma che sei matta?’, esclama.
‘Ero sicura che avresti vinto. Vedi? Mi sono portata il cambio’, risponde Paola rivestendosi con abiti asciutti e puliti.
A Federico brillano gli occhi. La mamma ripone in lui una fiducia cieca. Il loro rapporto è stretto, bellissimo, quasi simbiotico. “In quei lunghi viaggi in macchina ci divertivamo tanto. Federico suonava benissimo il flauto e aveva grande orecchio (Paola è un’insegnante di musica, ndr). Sentiva una canzone e riusciva subito a riprodurla con il suo flauto verde”.
Siamo nel 1992, Federico si presenta ai nastri di partenza del Lemon Bowl per la seconda stagione di fila. E stavolta fa centro. Luzzi supera nei quarti Potito Starace, che sarebbe poi divenuto il suo miglior amico, con il punteggio di 6-1 6-4. In semifinale ha quindi la meglio sul campano Giancarlo Petrazzuolo per 6-1 6-2. ‘Petra’, che in carriera è giunto sino al numero 217 ATP, ricorda benissimo quel torneo. “Era la prima volta che giocavo a tennis lontano da casa – racconta – e quel viaggio Napoli-Roma lo dovetti fare ben 9 volte, sino alla ‘semi’ contro Federico. Era fortissimo, il più forte d’Italia senza alcun dubbio. Quell’anno, se non vado errato, non perse nemmeno un match”. È il momento della finale. Luzzi, che difende i colori del Tennis Club Arezzo, affronta il bravo romano Alex Fagiolo del Tennis Club Garden. Non c’è storia: 6-3 6-3 e trionfo.
Luzzi è il più forte in Italia, per anni, della sua età. Entra nel circuito ATP precocemente e a 21 anni arriva in Top 100. Il servizio, potente e vario, è un’arma, mentre con il rovescio a una mano sa ben alternare colpi in top e slice; il dritto, in giornata, fa molto male ma è la manualità a impressionare: Federico fa ciò che vuole nei pressi della rete, con le palle corte, le volée e i passanti impossibili; fa impazzire gli avversari. Nel 2001, anno del best ranking, batte in un match assurdo il finlandese Liukko in Coppa Davis. Il match finisce 14-12 al quinto set, Federico è in estasi, giocare (e vincere) per l’Italia è un sogno che diviene realtà. In carriera supera ottimi tennisti come Coria, Clement, Arazi, Hrbaty, Corretja, Melzer, Monaco e Tipsarevic, ma la spalla fa crac troppo presto. I sogni di gloria finiscono prematuramente, nonostante Luzzi rimanga con passione e coraggio nel circuito. Sino alla fine. Credendoci sempre.
Paola smette di seguire il figlio quando inizia la vera e propria carriera professionistica. Si vedono poco, ma quando accade è come siano passati solamente cinque minuti dall’ultima volta. “Ho sempre curato l’archivio di Federico, sin dai primissimi tornei junior. Sono presenti fotografie, ritagli di giornale, tabelloni. Stampavo, ritagliavo e incollavo. Avevo smesso quando iniziarono a uscire notizie, video e foto online. Lui si arrabbiò tantissimo. ‘Continua, per favore’, mi disse. E così ho fatto. Quando è diventato professionista passava pochissimo tempo a casa, ma ogni volta che tornava, ed eravamo insieme, si metteva a sfogliare l’archivio dall’inizio. E, quindi, proprio da quegli indimenticabili Lemon Bowl”.
Negli anni i colleghi di Federico raccontano a Paola tanti aneddoti bellissimi. Racconti da circuito. “Sono stata a New York per Fedelux e alcuni giocatori mi hanno spiegato che, quando nello spogliatoio c’era aria pesante, ricolma di tensione, bastava l’ingresso di Federico per riportare l’atmosfera al mood giusto. Bastava una pacca sulla spalla, un sorriso”. Il lavoro con l’associazione permette a Paola di conoscere tanti grandi campioni, tutti sempre pronti a supportare Fedelux e a ricordare Luzzi. Nadal, Lopez, Ferrer, Djokovic e tanti altri. Qualche anno prima aveva già incontrato Federer, idolo di Federico. Paola e il figlio sono a pranzo. ‘Mamma, vieni, ti presento Federer’, come fosse la cosa più normale del mondo. “Djokovic invece mi parlava sempre della magia di Federico, che per lui ‘sorrideva con gli occhi’. Non è una sofferenza, per me, ripercorrere tutto ciò. Federico ha seminato simpatia e mi impressiona come, ancora oggi, io scopra nuove storie sulla sua vita, nuovi aneddoti. È una cosa bellissima. Qualche tempo fa ho incontrato a un evento Martin Vassallo Arguello (italo-argentino arrivato al numero 47 ATP, ndr), che mi ha raccontato del suo bellissimo rapporto con Fede. Nessuno può restituirmi più mio figlio ma quando ritrovo, nel mondo del tennis, i suoi coetanei e amici, è come ritrovarne una piccola parte. È accaduto addirittura con Daniel Koellerer…”.
Facciamo un passo indietro. È il 2004, siamo al bellissimo e rinomato Challenger di Genova. Match di primo turno tra Federico Luzzi e Daniel Koellerer. L’austriaco è famoso per essere il più grande provocatore del circuito: tra insulti, prese in giro e scorrettezze varie, è capace di far impazzire (quasi) qualsiasi avversario. Nessuno lo sopporta. Tutti lo detestano. Ma in pochi hanno il coraggio di prendere una posizione forte, sino al match in questione. Una battaglia di tre ore e tre minuti in cui accadde letteralmente di tutto. Koellerer insulta tutti: pubblico, arbitro, giudici di linea e ovviamente anche Federico, “che però aveva la nonna austriaca e capiva perfettamente il tedesco”. Luzzi si ritira sul 5-2 al terzo per il suo avversario dopo aver disintegrato la racchetta. Pochi minuti dopo l’austriaco è seduto su una panchina, è al telefono. Luzzi arriva e lo riempie di pugni. Pochi minuti dopo Federico chiama Paola: ‘Mamma è successo un casino, mi devi aiutare a preparare una nota difensiva in inglese’. “Mi spiegò l’accaduto. Io ero in vacanza in Sardegna. Mi recai in biblioteca a Santa Teresa di Gallura, era l’unico luogo con una connessione internet decente. Riuscimmo a spiegare all’ATP nel dettaglio le provocazioni grazie a quella memoria che scrissi in pochi minuti. Tant’è che Federico, nonostante avesse picchiato l’avversario, subì solamente un mese di squalifica, mentre Koellerer ne prese ben sei”. Luzzi fu portavoce di un malcontento generale, diventando ancor più idolo per i colleghi.
Salto in avanti nel tempo. Federico non c’è più. Siamo al Challenger di San Marino, dove Paola si reca per Fedelux. “Ero a pranzo al tavolo con Potito Starace e Andreas Seppi. Koellerer stava mangiando lì, solo soletto. E allora sono andata a parlarci. Era stupito che lo fermassi, rimase senza parole; fu sorprendentemente gentilissimo e sinceramente dispiaciuto per quanto accaduto a Federico”.
L’obiettivo di Paola, negli anni, è tenere viva la memoria del figlio cercando di fare del bene: “Tra me e Federico il cordone ombelicale è ancora lì, nemmeno la morte lo può tagliare. Mi ha dato la forza di buttarmi a capofitto nelle associazioni, nel suo ricordo. Avevamo tanti obiettivi: il primo ovviamente fu creare la AIL Arezzo Federico Luzzi; il secondo fu riuscire a far cambiare il nome ai Campionati Italiani under 14, che divennero ‘Trofeo Luzzi’ nel 2011; e l’ultimo, bellissimo sogno, è stato far intitolare una strada di Arezzo a Fede: via Federico Luzzi, che tra l’altro è vicina al circolo dove è nato e cresciuto. L’associazione è molto attiva, portiamo a casa tanti soldi e li usiamo immediatamente per aiutare i medici qui ad Arezzo e, di conseguenza, tutte le persone che hanno bisogno di cura e supporto di ogni genere”.
Dal 2010, a due anni dalla morte di Federico, anche la sorella maggiore Francesca decide di dedicare anima e corpo all’AIL Federico Luzzi ONLUS. “È un caterpillar. Francesca, che è quasi 4 anni più grande del fratello, un giorno mi disse: ‘Voglio lavorare per Chicco’. Economicamente ci ha rimesso, ma è stata una scelta consapevole. Io mi sono un po’ defilata negli ultimi anni e Francesca ha preso in mano tutto. Conosce tutti, arriva ovunque. Sono appagata da tutto ciò che siamo riusciti a ottenere”.
Dal Lemon Bowl a oggi. Il tennis agonistico è uno sport duro, faticoso, che ti mette di fronte a tante difficoltà. Non è da tutti, non è per tutti. Nella famiglia Luzzi nessun altro aveva più pensato di praticare seriamente ‘lo sport del diavolo’. “Anzi, Federico ha sempre detto a tutti noi: ‘Non mettete mai la racchetta in mano a un ragazzo, non ne vale la pena. Semmai a una ragazza…’. E a un certo punto è arrivato un segno. Io non sono credente, ma ritengo che un’essenza rimanga; e che quindi una parte di lui sia ancora qui con noi”. Ambra è la nipotina di Federico, l’ultima arrivata (classe 2011), non l’ha mai conosciuto, non ha fatto in tempo. È piccola, ha un anno e mezzo quando cammina vicino a mamma Francesca in un prato vicino casa. Vede qualcosa, si china e la raccoglie: è una piccola ‘Minnie’ con in mano una racchetta da tennis. “Federico ci ha detto chi, in famiglia, deve giocare a tennis”. Ambra comincia a giocare, senza velleità, per divertimento. Ha grinta da vendere, non vuol perdere mai. Conserva ancora oggi quella piccola ‘Minnie’ con la racchetta. Non se ne separa mai, è il regalo di Zio Chicco.
(Grazie a Paola Cesaroni)