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Solo tredici donne italiane possono fregiarsi di essere state campionesse olimpiche e campionesse mondiali della stessa specialità: Federica Pellegrini, Valentina Vezzali, Elisa Di Francisca, Giovanna Trillini, Josefa Idem, Jessica Rossi, Diana Bacosi, Paola Pezzo, Alessandra Sensini, Deborah Compagnoni, Stefania Belmondo, Gerda Weissensteiner. E l’ultima, che poi è la prima in ordine cronologico: Irene Càmber da Trieste, scomparsa quest’oggi a 98 anni, la prima donna della scherma italiana a vincere un oro olimpico, attorno alla mezzanotte del 27 luglio 1952, sulle pedane del Westend Country. Un circolo di tennis ad Espoo, sobborgo di Helsinki, che per due settimane, nell’estate del 1952, diventò il campo-gara della scherma, un luogo destinato a diventare mitologico per lo sport italiano.
L’Italia domina la scherma maschile, va a podio in cinque gare su sei, addirittura fa doppietta oro-argento nella spada, e si tratta di due fratelli, Edoardo e Dario Mangiarotti. Il programma femminile è molto più ridotto e si limita a una gara sola, il fioretto individuale, che da quasi vent’anni è il terreno di caccia prediletto dell’ungherese Ilona Elek: la prima grande fuoriclasse della scherma femminile, impermeabile persino alla Seconda Guerra Mondiale, dal momento che è stata oro sia a Berlino 1936 che a Londra 1948. A Helsinki Elek ha già 45 anni, ma non ci sono dubbi che la favorita sia lei. E poi, nello stuolo di pretendenti ai due gradini più bassi del podio, c’è anche una Cenerentola, come viene definita senza troppa fantasia dai giornali italiani. È Irene Camber, una mula di Trieste di 26 anni, laureata in chimica industriale, diplomata al Conservatorio in pianoforte, con un piccolo dente avvelenato per quanto riguarda le Olimpiadi: a Londra 1948 è stata eliminata al girone anche a causa di una giurata danese che era stata eliminata proprio da lei qualche ora prima. Così funzionava la scherma negli anni Quaranta: “Ma non mi lamentai, non mi sono mai lamentata. E poi, a dire la verità, io non sono mai stata una grande agonista”.
Irene viene da Trieste e nell’Italia del 1952, Trieste non è una città qualunque. Innanzitutto è il centro di gravità permanente dello sport azzurro: da quella regione arrivano ben 23 atleti della nostra spedizione, in pratica uno su sei. E poi la città è al centro di una vera e propria “questione triestina”. Dal 1945, cioè dalla fine della guerra, la regione giuliana è divisa a metà: una regione a Nord, da Monfalcone fino a Muggia, definita Zona A, sotto il controllo dell’amministrazione Alleata che ha vinto la guerra; un’altra regione a Sud, la zona B, che corrisponde al resto dell’Istria, sotto il controllo della Jugoslavia, che in quanto Stato confinante mira a occupare l’intero territorio. Trieste è proprio presa in mezzo e non si contano le manifestazioni a favore della definitiva riannessione all’Italia. Manifestazioni non sempre pacifiche, che a volte scatenano le reazioni violente degli ingombranti vicini di casa.
Anche Irene ha una storia familiare di frontiera: suo padre Giulio è stato un avvocato e un uomo di lettere che ha combattuto in entrambe le guerre Mondiali ed è morto in Albania, nel 1941, a causa di una caduta da cavallo. Due anni prima di Helsinki, nel 1950, Mondadori aveva pubblicato “La Buffa”, una sua raccolta di poesie con una lunga prefazione del più importante dei poeti triestini, Umberto Saba. Più modestamente, Giulio ha lasciato a sua figlia un insegnamento che le riecheggerà nella testa al momento degli assalti decisivi: “Sei tu che devi risolvere il tuo problema”.
Irene ha un fisico non comune per gli standard dell’epoca, non solo femminili. È alta un metro e settanta, il che fa di lei una delle atlete di maggior statura in gara; ma allo stesso tempo è elegante, svelta, leggera, anche se paga molto in esperienza e cattiveria agonistica rispetto alla fortissima Elek. Breve excursus su come funzionano le gare di scherma negli anni Cinquanta: non seguono un tabellone tennistico come oggi, ma si snodano in infiniti gironi eliminatori finché gli atleti rimangono in 8, e a quel punto si sfidano in un ulteriore girone all’italiana. Tutti contro tutti, sette combattimenti a testa, si vince a quattro stoccate, e poi la classifica finale determina il podio. “Io seguivo gli assalti, prendevo appunti sulla scherma delle mie avversarie. In mattinata ho superato senza difficoltà i primi turni, mentre le mie compagne venivano eliminate. A mezzogiorno ho chiesto alla mensa una bistecca: non me l’hanno data, mi hanno risposto che erano contate e che spettavano non ricordo a chi. Allora ho mangiato un uovo e una mela”. Irene Camber si qualifica al girone finale per il rotto della cuffia e non è certo tra le favorite al podio, ma il giro finale – iniziato a tarda sera, per quanto possa essere sera a Helsinki, dove a luglio c’è luce tutto il giorno – rimescola a sorpresa le carte. Irene vince i primi due assalti, poi perde i due successivi contro le statunitensi Maxine Mitchell e Jan York. Proprio Mitchell sembra ispiratissima, addirittura sconfigge persino la Elek, ma poi anche lei lascia qualche punto sulla pedana. Così si arriva al momento decisivo del girone, lo scontro diretto tra Elek e Camber, che lasciamo raccontare alla penna di Gianni Brera per la Gazzetta dello Sport.
“Quando la campionessa ungherese scese in pedana con l’azzurra, ella vantava quattro vittorie e una sconfitta, contro le tre vittorie e due sconfitte dell’avversaria. Le sarebbe bastato aggiudicarsi l’assalto per rinnovare il titolo olimpico. Quando Ilona, come una belva urlante, si lanciò su di lei, quella che considerava una facile preda dovette sembrarle a sua volta in agguato: due implacabili stoccate ne umiliarono la superbia”.
E dunque adesso siamo pari, e dunque si rende necessario il cosiddetto barrage: lo spareggio per l’oro, da disputarsi alle soglie della mezzanotte. Le luci della sala si fanno sempre più sparate e accecanti, la stanchezza domina su tutto. Volge al termine il 27 luglio 1952, giornata leggendaria per la storia delle Olimpiadi: il giorno in cui Emil Zatopek, dopo aver vinto 5mila e 10mila metri nella stessa edizione, si è fatto monumento aggiudicandosi anche la maratona. “Ero calmissima”, ricorderà per sempre Irene, “mentre lei era più nervosa, conosceva la mia forza. Non solo l’avevo appena battuta nel girone, ma l’avevo anche cappottata a Budapest, a casa sua, qualche mese prima”. “Cappottare”, nella scherma di allora, voleva dire vincere 4-0. Ed è quel che sembra avere intenzione di fare la Elek, che nello spareggio si porta subito sul 2-0. Camber cambia strategia, pareggia 2-2, subisce il 3-2 e la Elek è a un punto dalla terza medaglia d’oro consecutiva. Ma arriva il 3-3, e ci si gioca tutto all’ultima stoccata. “Ricordo il silenzio intorno, le luci che mi davano fastidio. Ripensai alla frase di mio padre: sei tu che devi risolvere il tuo problema. Accennai un attacco e la Elek parò. Ripetei lo stesso attacco e lei parò con lo stesso gesto. Io stavo traccheggiando ma mi resi conto che lei rispondeva in modo meccanico, senza grande attenzione. E allora entrai decisa: feci un coupé e le entrai nella pancia”. La Elek ha capito che è finita: non aspetta nemmeno il verdetto solenne del giudice, che si prende tutto il tempo per ricostruire mentalmente la stoccata prima di assegnarla. Si toglie la maschera e le fa le congratulazioni, suggellando l’inizio di una grande amicizia. “Ilona Elek era una donna di un’intelligenza straordinaria, che in passato si era allenata anche a Livorno. Aveva anche composto l’inno degli schermidori ungheresi. Era ebrea, ma non le ho mai chiesto come abbia fatto a scampare allo sterminio. Devo a lei se sono entrata nella Federazione Internazionale”.
Questa è la storia della seconda medaglia d’oro al femminile dello sport italiano, 16 anni dopo l’oro di Ondina Valla a Berlino 1936. Soprattutto, la prima di una lunghissima serie nella scherma, quarant’anni prima del Dream Team del fioretto, un dominio di cui ancora non si vede la fine. Irene metterà la firma anche sul secondo oro, vent’anni dopo, quello di Antonella Ragno a Monaco 1972: la guiderà lei, come ct della Nazionale. Ancora vivissimo, nella sua mente, il ricordo del ritorno a casa. ”Arrivai a Trieste con la corriera da Venezia alle 16,45. Fui portata per Corso Italia su una macchina scoperta, ci seguivano le macchine e trecento lambrette. Fu la vittoria di una città”. Ancora una volta lo sport anticipava il corso degli eventi politici e si faceva portavoce di istanze più importanti: Trieste sarebbe tornata all’Italia due anni dopo, e per sempre. Quanto a Irene, avrebbe saltato i Giochi di Melbourne ’56 perché fresca di matrimonio con il dottor Gian Giacomo Corno, poi sarebbe tornata a Roma 1960, conquistando un bronzo con la squadra di fioretto senza nemmeno riuscire a presenziare alla premiazione, perché era dovuta volare dai due figli piccoli a casa. E a 38 anni sarebbe stata quarta a Tokyo 1964, prima di dedicarsi alla famiglia e alla carriera da allenatrice. La celebrerà nel 2019 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenendo a Palermo in una cerimonia celebrativa dei 110 anni della Federazione Italiana: “Non sono mai stato estraneo alla scherma. Ricordo le medaglie di Irene Camber a Helsinki 1952, quando lo sport si seguiva alla radio”. Insomma una pioniera del nostro sport, in un’epoca in cui la scherma femminile praticamente non esisteva, tanto che il pezzo sulla Gazzetta, a firma di Edoardo Mangiarotti, dava notizia della vittoria solo nell’ultimo paragrafo: “Mentre telefoniamo ci viene portata la notizia che l’azzurra Irene Camber ha conquistato all’Italia un’altra medaglia d’oro. Un successo che desterà stupore e che comprova ancora una volta la bontà della nostra scuola schermistica”.
Ci pensò il giorno dopo Gianni Brera a renderle onore, con un fondo intitolato “Daghe, muleta!” (come da esclamazione in dialetto triestino della concittadina Silvia Struckel al momento di abbracciarla). Un pezzo che si apriva così: “Irene Camber ha il volto onesto e buono di tutte le vostre compagne di liceo che hanno scelto Chimica”.
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