Non conosceva, fino a questo momento, il sapore del podio al di fuori dei confini della Francia, della Svizzera o dell’Oman. Chris Froome ha vinto per la prima volta la Vuelta a España, il primo grande giro – oltre al Tour – che entra a far parte del palmares del britannico. Per lui, in passato, c’erano stati successi solo in corse a tappe di secondo livello, come il Tour of Oman (nel 2013 e nel 2014), il Giro di Romandia (sempre nel 2013 e nel 2014) e il Giro del Delfinato (2013, 2015 e 2016). Fino al 2017, Vuelta e Giro per lui sono stati tabù. Il primo è stato sfatato. La sensazione è che, per il secondo, ciò non avverrà mai.
Froome, calcolatore fino all’ultimo centimetro. In questa Vuelta non è mai stato l’alieno delle sue vittorie al Tour (eccetto nella tappa a cronometro vinta a Logroño), si è saputo gestire e ha accettato anche di perdere terreno nei confronti degli avversari diretti. Ha piazzato la zampata a Cumbre del Sol, ha pagato un po’ di nervosismo nella tappa di Antequera (dove ha subito un guasto meccanico e, per la foga di recuperare, è caduto subito dopo), ha capito di doversi gestire sul durissimo muro di Los Machucos, ha controllato – senza strafare – sull’Angliru, lasciando la scena a un immenso Alberto Contador. Una corsa a tappe condotta con intelligenza e tattica, contando sempre sullo strapotere di una formazione – la Sky – che pure ha mostrato qualche piccolo segnale di cedimento, tipico del finale di stagione.
Eppure, secondo Froome, quella Tour-Vuelta è l’unica accoppiata possibile, anche se la corsa spagnola si sviluppa nel caldo torrido di fine agosto-inizio settembre, anche se è messa in calendario verso le ultime pedalate della stagione. Meglio la Vuelta, insomma, di un Giro d’Italia che – invece – si corre a maggio, quando la condizione atletica è ancora un gran punto interrogativo e il rischio imbarcata (vedi Nairo Quintana) può essere sempre dietro l’angolo. Lo ha detto e lo ha ripetuto nel corso delle sue interviste: la corsa italiana non fa per lui. “Il Giro? Che cos’è?” – si è lasciato scappare a marzo di quest’anno. E, dietro a questo presunto disprezzo, c’è la volpe che non riesce ad arrivare all’uva.
Con la vittoria alla Vuelta di quest’anno, Froome è stato in grado di sfatare il mito del corridore capace di vincere solo in Francia e in poche altre occasioni. La doppietta Tour-Vuelta nello stesso anno, del resto, è quasi un inedito per la carovana del ciclismo internazionale. Prima dell’impresa di Froome, infatti, c’erano riusciti solo i francesi Jacques Anquetil (nel 1963) e Bernard Hinault (1978). Ma erano altri tempi: fino al 1995, infatti, la corsa spagnola si correva in primavera. Sono stati tre, comunque, anche i corridori che hanno vinto Giro e Vuelta nello stesso anno (Eddie Merckx nel 1973, il nostro Giovanni Battaglin nel 1981 e Alberto Contador nel 2008), mentre l’accoppiata più “tipica” – e anche quella più prestigiosa – resta quella tra Giro e Tour (12 casi, tra Merckx, Hinault, Coppi, Anquetil, Indurain, Roche e Pantani).
Vincere due corse a tappe consecutive, comunque, rappresenta sempre una menzione d’onore. Occorre una preparazione mirata e una gestione sapiente delle energie. Froome, in questa stagione, ha deciso di sorprendere i suoi tifosi, gli osservatori di ciclismo e i suoi detrattori. Che, in ogni caso, avranno sempre la scusa perfetta per sminuirne la portata: snobbare il Giro d’Italia resterà sempre il suo peccato originale.