A trionfare al 58° Trofeo Bonfiglio sono due promesse di alto spessore. Non soltanto per quanto attiene l’altezza ma anche per la capacità di gestire le situazioni più complesse. Alexei Popyrin ha avuto bisogno di un’ora per prevalere sul serbo Marko Miladinovic, mentre Elena Rybakina ha faticato decisamente di più per superare la giovane polacca Iga Swiatek all’atto conclusivo. Succedono nell’albo d’oro a Stefanos Tsitsipas che solo un anno fa si imponeva nel medesimo evento e di quel Alexander Zverev che appena 4 anni dopo il successo a Milano è riuscito a vincere il primo Masters 1000 in terra capitolina e a subentrare fra i primi 10 al mondo.
La più vibrante delle due finali è stata quella femminile, anche perché contraddistinta da un andamento altalenante difficilmente auspicabile alla vigilia e ancor di più a fine primo parziale. Cioè dopo che la polacca Iga Swiatek, in meno di mezz’ora, aveva guadagnato il primo set con il roboante punteggio di 6-1. E soprattutto dando sempre l’impressione di avere le mani sul trofeo, perfino quando ha perso al tie-break il secondo set. Anche in quel frangente la russa, con la sua lunga treccia bionda raccolta sotto la visiera bianca, non pareva comunque in grado di trovare il grimaldello per scardinare il fitto schema di gioco della polacca. È stato sul 2-2 del set decisivo il primo momento in cui Elena Rybakina è sembrata davvero in grado di vincere il trofeo: più concentrata, più incisiva nei colpi, più precisa al servizio e soprattutto più lucida. E infatti di lì in poi il suo percorso è stato in discesa, fino all’1-6 7-6 6-3 conclusivo. “Sapevo che sarebbe stato un match duro – ha detto ‘Lena’ dopo la premiazione – perché la mia avversaria era molto aggressiva e io ho pagato la stanchezza della settimana. Però poi ho cominciato a trovare il mio tennis e un po’ di tranquillità”. Allo stesso momento è giunto in aiuto pure il servizio, e il primo titolo di Grado A in carriera è diventato realtà.
Dominata senza mezze misure la finale maschile. Marko Miladinovic, classe 2000, non è riuscito a riproporre di fronte a un Centrale gremito nel suo lato d’ombra (c’erano ben oltre 30 gradi a Milano) quanto di buono aveva mostrato durante la settimana e specialmente nella semifinale contro lo statunitense Crawford. Niente più vincenti di rovescio, niente più diritti carichissimi di top spin e di angoli insidiosi, niente più prime di servizio avvelenate. Al suo posto si è vista la grande concretezza tutta moderna del tennis di Popyrin. L’australiano di origini russe, accompagnato a Milano da mamma Elena, ha fatto tutto direttamente con il servizio o alternativamente con i primi due colpi immediatamente successivi. Supportato, in questo, dalla poca precisione del serbo seguito a Milano dall’ex pro Boris Pashanski, uno famoso per il caratteraccio e per essere entrato tra i Top 60 Atp nel 2006. Al match point Popyrin ha esultato portandosi le mani alla testa levandosi il cappellino che lo ha accompagnato per tutta la settimana: “I momenti più difficili? Al secondo turno (contro l’argentino Geller, ndr) e in semifinale (contro il russo Skatov, ndr) – ha detto il vincitore -. Oggi sono riuscito a fare il mio gioco e a restare concentrato per tutto la partita. Sono felicissimo di aver vinto, ma ci sono ancora molti risultati da raggiungere e molto lavoro da fare”. Un lavoro che ha toccato anche l’Italia, per un anno a cavallo di 2011 e 2012, quando l’australiano si è allenato a Bordighera con coach Piatti. “Riccardo è stato importantissimo per me – ha detto -, mi ha insegnato molto sia tecnicamente che tatticamente. Chissà che un giorno le nostre strade non si possano riunire”.