“La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione”. Ne era convinto Seneca già molti anni fa, ed è più o meno la sintesi dell’iter che ha portato un piccolo campione di judo verso la danza e, successivamente, un primo ballerino dentro un universo fatto di ghiaccio.
Corrado Giordani è il coreografo della nazionale italiana di pattinaggio sul ghiaccio. Tutto quello che è arte in questa disciplina passa attraverso il suo fiuto e il suo gusto. Da Federica Faiella e Massimo Scali a Charlene Guignard e Marco Fabbri, da Valentina Marchei e Ondrej Hotarek a Roberta Rodeghiero, fino ai giovanissimi che si stanno facendo strada tra gli juniores. Difficile trovare un programma che non porti la sua firma e il suo marchio. Oltre 20 anni sui palcoscenici di tutto il mondo come ballerino. Poi la voglia di fermarsi e di mettere radici, un incontro del tutto casuale in un momento in cui l’orizzonte era incerto ed ecco che la vita prende un’altra piega. “Sliding doors” le chiama qualcuno, porte scorrevoli. Attraversarne una invece che un’altra può essere questione di istanti e può portare in posti inaspettati. E Corrado, nella sua nativa Trieste, in un giorno in cui di anni ne aveva 14, si è ritrovato ad attraversare la porta che dalla sua palestra di judo, disciplina nella quale era un piccolo campione, conduceva alla sala della danza.
“Ho deciso di provare, quasi per sfida nei confronti del mio istruttore con il quale avevo avuto una piccola discussione – ricorda, con un pizzico di emozione – ed ero l’unico fra decine di ragazzine che mi guardavano come un alieno. E’ stato semplice istinto, non so come ma capivo i passi, avevo le musiche dentro. Tre anni dopo mi sono trasferito a Milano per studiare seriamente e da lì ho iniziato la carriera con l’Aterballetto, preferita ai teatri lirici perché mi dava la possibilità di viaggiare molto; è stato in quel momento che ho conosciuto Alessandra Celentano, diventata per me più di una sorella. Ho ballato ovunque e lavorato con i migliori coreografi, arricchendo la mia formazione con un repertorio che va dal moderno al contemporaneo, passando per il classico; aspetto, quest’ultimo, che ho poi approfondito al Teatro dell’Opera di Zurigo. Ho smesso a 35 anni, abbastanza presto, perché ero logorato dalle tournee. Era una vita meravigliosa, ma sentivo l’esigenza di mettere radici nel mio Paese e da persona impulsiva quale sono ho detto basta di punto in bianco, anche se non avevo un’alternativa”.
Decisamente una scelta che denota coraggio, anche se a quel punto il nome di Corrado Giordani aveva un peso nel mondo del balletto ed era ambìto dai più grandi. Eccolo, quindi, di nuovo a Milano; apparentemente tornato al punto di partenza, ma in realtà il destino aveva già deciso di metterci lo zampino. “Sono stato quasi 7 mesi a chiedermi cosa fare ‘da grande’ finché c’è stato questo incontro assolutamente fortuito con Franca Invernizzi, all’epoca direttrice tecnica del Forum di Assago” racconta. “Ho sempre amato il pattinaggio ed ero andato a guardare una gara a Como con degli amici. Finita la gara ho avuto un problema che mi ha costretto a fare immediatamente ritorno a Milano. Non sapevo come fare, finché sono stato indirizzato verso un’auto a bordo della quale sapevano che c’era una donna che doveva tornare a Milano. Sfacciatamente le ho chiesto un passaggio senza sapere chi fosse – ricorda – e sono finito in macchina con Franca che, da donna di grande cultura, conosceva bene la mia ex compagnia. Mi ha chiesto di fare una lezione di prova e, un po’ per gioco, mi sono ritrovato al Piranesi, davanti ad un pattinatore che interpretava il Don Chisciotte. Per me, ballerino di teatro, vedergli fare certi movimenti è stato come ricevere una colpo al cuore! Mi sono fiondato in pista con le scarpe per cercare di correggerlo, con il cuore che andava a 3000, e dalle piste di ghiaccio non sono più uscito”.
Fortuna e bravura, dunque, ma anche la capacità di saper amministrare questa buona sorte. Tv, spettacoli in mondovisione, cinema, collaborazioni con Luciano Pavarotti e Alessandra Ferri, la nazionale di pattinaggio con i campioni che ha visto crescere ed affermarsi stagione dopo stagione, amici più che ‘allievi’, che con orgoglio definisce “il mio prodotto artistico”. Uno sguardo e ci si capisce al volo, e questo vale per gli atleti in singolo come le per coppie e le Hot Shivers del sincronizzato.
“Mi piace che con ognuno di loro ci sia uno scambio – spiega – e cerco di non impormi come il maestro che ne sa più degli altri. Voglio che ci sia feeling, che siano a proprio agio, a partire dalle musiche. Sono loro che devono sentirle proprie, il mio compito è di guidarli ad entrare ‘nella bolla’ e a lasciarsi andare fino ad entrare nei personaggi dei programmi, come attori consumati“.
A proposito di programmi, stai già pensando a quelli della prossima stagione?
“Pensarci troppo tempo prima non va bene, mi piace incontrare gli atleti, sentire cosa avrebbero voglia di fare, osare con quelle più giovani e seguire il filone narrativo di quelle già consolidate. In coppie come Anna e Luca, ad esempio, sarebbe assurdo sperimentare. Loro hanno un target tipicamente italiano che fanno benissimo e sul quale continuare a lavorare perché sono due interpreti eccezionali, due artisti a 360 gradi. L’arte non ha schemi predefiniti, è una per tutti. Quando il lavoro è ben avviato c’è solo da perfezionarlo, cosa che spesso avviene a fine stagione e coincide con le gare più importanti mentre all’inizio i programmi sono puliti, accademici, ma quasi senza anima“.
Alcuni allenatori affermano che la parte tecnica ha preso il sopravvento su quella artistica. E’ così? E come si può rimediare? Se si può…
“Confermo. Poiché bisogna seguire determinate regole, tutti finiscono col fare le stesse cose. Si rimedia cercando di arricchire un programma con le espressioni del viso e i movimenti del corpo, e creando pathos. Questa, però, è una capacità che non tutti hanno. Il carisma è una dote innata e quando tutti sono chiamati a proporre la stessa cosa emerge solo chi ce l’ha“.
Il problema dei programmi tutti uguali, tra l’altro sollevato da Paola Mezzadri nel corso dell’ultimo mondiale, riguarda principalmente lo short. Immagino che lì il tuo lavoro sia davvero difficile e limitato…
“Limitatissimo, non solo per la durata ma anche per la molteplicità di elementi tecnici imposti. Infatti, ovviamente, adoro lavorare sul libero, scegliere le musiche con i ragazzi e gli allenatori, immaginare una storia. Lo short è un programma tecnico con abbellimento artistico, nel libero puoi tirar fuori tutto quello che hai“.
Per la prossima stagione l’ISU ha scelto i ritmi latinoamericani. Sei contento? Pensi che si possa fare un buon lavoro?
“Moltissimo. Siamo italiani, siamo latini, vedo meglio un latino americano fatto da noi che da pattinatori di altre nazioni. E’ l’ideale e, tra i mille limiti dello short, sono sicuro che si potrà fare davvero un buon lavoro perché basta poco per dare l’impronta giusta“.
Collabori da anni con le più grandi allenatrici italiane: Barbara Fusar Poli, Paola Mezzadri, Franca Bianconi. Un tris di donne stupendo, me le racconti?
“Comincio da Barbara, e per lei mi viene in mente solo un aggettivo: esplosiva. Scegliamo insieme le musiche, c’è fiducia reciproca, ha quella che mi piace definire ‘testardaggine vincente’ e le dico quello che penso senza remore, perché entrambi abbiamo a cuore solo il bene degli atleti. Franca invece è riflessiva, è calma apparente, sa quello che dice e che vuole e i risultati le danno ragione, è la miglior coach di coppie di artistico e singolo oggi in Italia; Paola è sicurezza, ha carisma, può anche permettersi di non parlare perché basta guardarla negli occhi per sentirsi tranquilli, dall’alto della sua esperienza e delle sue innumerevoli olimpiadi è un esempio per tutti“.
C’è un programma del quale sei un po’ più orgoglioso di aver firmato le coreografie?
“Li amo tutti perché li sento come delle mie creature ma, essendo un appassionato delle storie legate alla shoah, ricordo con piacere il mio primo Schindler’s list con Vaturi – Alessandrini quasi 10 anni fa, e poi ovviamente quello di Marco e Charlene dell’anno scorso che è stato un passaggio verso la maturità. Il primo era più acerbo e istintivo, il secondo più accattivante e d’impatto. Un altro programma che amo molto è il ‘Notre Dame de Paris’ di Lukas Csolley e la sua prima partner, Nikola Visnova, perché fa riemergere in me l’amore per il balletto. E poi ‘Gli emigranti’ di Federica Faiella e Massimo Scali, con musiche di Nino Rota. Quello è stato il programma della mia svolta emotiva, nato in macchina in una serata milanese. Massimo si è fermato in corso Buenos Aires, ha inserito il cd e mi ha chiesto di ascoltare. Ci siamo guardati negli occhi quasi commossi e abbiamo detto “sarà un programma da paura”. Tutti abbiamo avuto a che fare con amici e familiari andati via in cerca di un futuro migliore, conosciamo bene questa storia e Massimo e Federica sono stati due interpreti eccezionali“.
Come guardi al mondo degli juniores, futuro di questo sport?
“C’è un po’ di stallo. L’Italia, che ha sempre avuto una grande tradizione nella danza, rischia di soffrire un grosso vuoto dopo il mondiale del 2018 perché molti smetteranno. Dobbiamo fare in fretta. Le Olimpiadi del 2022, anche se non sembra, sono già alle porte e bisogna pensare al prossimo quadriennio olimpico. Per fortuna abbiamo molti talenti, dobbiamo solo essere bravi a metterli insieme e a farli crescere senza quelle guerre tra club e società che fanno solo tanto male a questo sport“.
Le emozioni di Sochi, a distanza di tre anni. Cosa ti dà un’olimpiade?
“E’ stata un’esperienza unica, per la quale ringrazio Barbara Fusar Poli che mi ha voluto vicino a sé. Per me è stata la prima e avevo tre team: Germania, Francia e Italia. Tre culture, tre scuole diverse. L’Olimpiade è il coronamento di un atleta, ma anche una grande esperienza per un allenatore e un coreografo, perché lì vedi veramente il meglio del meglio e per un periodo abbastanza lungo. Segui gli allenamenti, vivi all’interno di un grande villaggio e capisci davvero quanto lo sport possa unire. Anche la maestosità e l’eco mediatica sono una cosa a sé, e fanno la differenza. L’emozione, però, è la stessa di qualunque altra gara, io mi emoziono per i miei ragazzi ai campionati nazionali come ai mondiali e dev’essere così, non esiste una gara di serie A e una di serie B: se pensi questo, e parti con questo presupposto, sarai un perdente“.
In cosa la danza sul ghiaccio differisce da quella classica…
“Innanzitutto dalla fisicità, un ballerino non sarà mai un pattinatore e viceversa. Io all’inizio facevo delle lezioni di danza che erano quasi di balletto, poi ho capito che non serve e che bisogna trovare una via di mezzo per trasmettere le linee, l’eleganza e la bellezza, sapendo che i pattini non sono le punte. Sono due mondi differenti, ma con tante cose in comune. Il pattinaggio possiede questa caratteristica meravigliosa di essere, contemporaneamente, arte, competizione e sport“.
Torniamo a te. Se potessi tornare indietro, c’è qualcosa della tua vita che cambieresti o rifaresti dall’inizio?
“Nulla. La lascerei di nuovo scorrere così perché è una vita di grandi soddisfazioni. Anche di sacrifici enormi, è vero, ma è sempre valso la pena farli. Io non ho avuto l’adolescenza o la giovinezza, non mi sono goduto le serate in discoteca con gli amici. Per me c’erano solo spettacoli, tournee e la sera a letto presto perché l’indomani mattina c’era lezione. Non credo nelle scalette prestabilite della vita, uno se la deve giocare, la deve vivere al massimo e rischiando, per non avere mai rimorsi“.
Ma la vena artistica da dove arriva?
“Dalla nonna materna che era una ballerina del Teatro di Rivista, con il suo avanspettacolo a metà tra la prosa, la musica, la danza e la comicità. Una sera del 1993 mi trovavo a Firenze per uno spettacolo, e mia nonna mi mostrò una locandina conservata a lungo che riportava lo stesso teatro e la stessa data, ma del 1943. Mi disse: “Corrado, oggi tu stai ballando al teatro Verdi di Firenze, sappi che io ho fatto la stessa cosa 60 anni fa. Non l’ho mai detto perché all’epoca ballare non era considerata una bella cosa”. Ho scoperto solo in quel momento che anche lei aveva fatto tanti anni di tournee“.
Non solo danza, non solo ghiaccio, ma anche tv. Che esperienza è stata quella di Pechino Express, due anni fa, con Alessandra Celentano?
“L’esperienza della vita. Dimentichi di essere lì per ragioni televisive, ti scordi le telecamere e il pubblico. Non c’è giuria, hai un euro al giorno e devi raggiungere una meta. Con Alessandra si è consolidato un rapporto trentennale, abbiamo visto cose che credo non vedremo più: la povertà assoluta e la generosità enorme di chi non ha niente. Lì ho capito che non c’è età per imparare ad apprezzare quello che abbiamo e non avrei potuto avere compagna migliore di Ale. Ci sentiamo e ci confrontiamo sempre su tutto, ci vediamo quando possiamo, è una delle persone più importanti nella mia vita“.
Ma anche tu pensi, come lei, che la danza classica non sia per tutti?
“Assolutamente si, è per pochissimi. Lei passa per quella cattiva ma ha ragione, non regala illusioni. Per la classica devi avere certi requisiti perché è estetica, e l’estetica richiede certi canoni. Chi lo nega vuole solo fare polemiche sterili“.
Abbiamo la danza, lo sport, il cinema, la tv: cosa manca?
“Nulla, ed è un grande privilegio. Prendo tutto quello che arriva con grande entusiasmo. Sono una persona fortunata, adrenalinica, positiva, che crede in se stessa“.
E allora torniamo al ghiaccio. All’exploit ai mondiali junior di Matteo Rizzo, al debutto europeo di Tessari – Fioretti, alla lunga amicizia con Valentina Marchei. Tanti talenti, tante forme diverse di affetto…
“Con Matteo ho un rapporto speciale, è un ragazzo molto intelligente (io lo chiamo ‘ragioniere esecutore’) che sa perfettamente quello che deve fare. Studia tutto, sa tutto sui regolamenti, assorbe tutto quello che gli dici, è instancabile e con lui non ci si annoia mai. Jasmine la conosco da quando era una bambina perché con la mamma, Cristina Mauri, ho lavorato per 15 anni. Ha una sensualità innata della quale non ha ancora preso piena consapevolezza, come anche del suo immenso talento. E’ molto emotiva e questo la porta ad avere ancora un po’ paura delle gare, ma con Francesco sono ormai la terza coppia, dopo Anna e Luca e Marco e Charlene, e mi piacciono molto. Del resto anche Francesco è migliorato tanto grazie a Barbara, che ti sa davvero tirar fuori il sangue. E poi Valentina: mediterranea, focosa. Tra noi c‘è un rapporto che va al di là del ghiaccio e che non ha spezzato neanche il periodo in cui si è allenata negli Stati Uniti. Con Ondrej la seguo dalla prima stagione, ed è un esempio di voglia di arrivare senza mai arrendersi. Quando ha subito un’operazione al piede veniva in palestra con il gesso per lavorare la parte superiore del corpo e le braccia, ed effettivamente è migliorata tantissimo. E’ intelligenza unita alla caparbietà, umile e disponibile, un esempio da seguire per tutte le nuove aspiranti campionesse“.
Pensi che abbia fatto bene a passare alle coppie?
“Certo! Era quello che desiderava, ha rischiato e ora lei e Ondrej sono ai vertici europei e tra le prime dieci coppie al mondo, il tutto non in giovanissima età. Sono una coppia molto seria e professionale, lavoro benissimo con loro“.
Con lei hai condiviso anche l’esperienza cinematografica con Siani…
“Quando Alessandro mi ha chiamato per Mister Felicità e ho capito che tutto doveva essere racchiuso in pochi minuti ho letteralmente imposto il nome di Valentina, perché con lei basta uno sguardo. Infatti quando è arrivata a Roma alle prove, io avevo già le musiche e abbiamo montato il programma subito. Siani è rimasto entusiasta, erano tutti stregati da questa personalità pura e forte in un ambiente che comunque non era il suo“.
Per chiudere, un augurio per il tuo futuro?
“Chiedo solo serenità, perché quando c’è lei hai davvero tutto“.