E pensare che era la terza scelta. Si fecero i nomi di Conte e Ancelotti. Ma alla fine la spuntò lui, Roberto Mancini, con un sogno nel cuore e una rivincita da prendersi. L’aveva puntata sin dall’inizio, rifiutando gli accostamenti ai grandi Ct del passato, anche quando infrangeva i record di Pozzo (“Sì, ma lui ha vinto due Mondiali”). Aveva in testa l’Europeo, itinerante ma neanche tanto, nella casa degli inglesi, quello stadio Wembley che gli aveva inferto la ferita più dolorosa della sua carriera, che è stato buttato giù nel 2002 e ricostruito nel 2007 mantenendo lo stesso carico di sentimenti ed eredità. L’eredità della Nazionale reduce dall’eliminazione dai Mondiali del 2018 è la rivincita di Roberto Mancini che a Wembley ha perso una Coppa dei Campioni e a Wembley è tornato da campione dell’Europeo con lo staff per 5/6 blucerchiato: Vialli, Lombardo, Evani, Battara, Salsano. L’eccezione è comunque simbolica: Daniele De Rossi, che l’ultima partita in azzurro l’ha passata nel giorno più difficile quasi interamente in panchina a sfiorare l’ammutinamento per il bene della Nazionale, chiedendo Insigne in campo al suo posto. In questa Italia c’è tanto di quel gesto che guardava al collettivo e non al singolo, mentre gli azzurri toccavano il punto più basso.
Quel Lorenzo Insigne che in questo Europeo ha vestito più volte la veste del protagonista è stato uno degli intoccabili di Mancini che di scelte ne ha fatte, sapendo tornare indietro. A settembre del 2018 partì con Mario Balotelli, fu l’ultima chance. Poi la sorpresa della convocazione di Nicolò Zaniolo, uno di quelli che ha fatto parte della lista ristretta di giocatori convocati in Nazionale senza una presenza in Serie A, con Costantino, Maccarone, Verratti e Grifo. Il romanista iniziò a rivelarsi ben presto una stella nascente, confermando l’occhio di Mancini. Anche se dietro quella convocazione c’era un messaggio meno circoscritto: fate giocare i giovani. Lo ha ascoltato il Sassuolo che ha dato fiducia a Giacomo Raspadori, presto preferito a tutte le altre terze punte. Ma al di là di qualche nome, la mentalità degli azzurri è sempre la stessa. L’approccio giochista, mai nascosto contro nessuno, in fondo nemmeno contro i maestri del possesso palla, quella Spagna che ha sì messo sotto gli azzurri, ma senza dominarli come nel 2012. Anche all’epoca la qualità non mancava, con De Rossi e Pirlo in campo. Oggi di qualità ce n’è anche in panchina, con Pessina e Chiesa decisivi agli ottavi dopo l’ingresso nel corso della gara. Oggi Verratti, Jorginho, Locatelli e Barella hanno disegnato un altro tipo di Italia, capace di sfatare ogni stereotipo sul calcio italiano. Ha difeso Ciro Immobile nel momento complicato, l’ha accarezzato senza dimenticare Belotti e allo stesso tempo senza alimentare un ballottaggio che rischiava di creare fin troppa pressione sul laziale. Ha superato gli infortuni delle tre stelle romaniste: Zaniolo prima – che ad agosto dello scorso anno sembrava un titolare -, Pellegrini e infine Spinazzola, due volte eletto ‘man of the match’ in un match dell’Europeo. L’unico altro Europeo in cui l’Italia ha saputo vincere tutte e tre le partite del girone è stato quello del 2000, ma stavolta la beffa non c’è. C’è l’ennesimo capolavoro, che vale la trentaquattresima partita senza sconfitte. L’Italia diventa la quarta nazione a vincere più di un Europeo, raggiungendo Germania, Spagna (entrambe a tre titoli) e Francia (due). E’ tutto di Mancini che si prende la rivincita personale, e la distribuisce. La Svezia è lontana, il Qatar mai così vicino e fermarsi può essere un delitto. Anche perché “Pozzo ne ha vinti due”.