Ci sono partite che sono in grado di rappresentare in maniera simbolica la percezione e la dilatazione del tempo. Se, per esempio, chiediamo a un tifoso dell’Inter quanto durò il match contro il Barcellona del 28 aprile 2010, probabilmente risponderà che sia durato anni.
Il club nerazzurro si presentò al Camp Nou per il ritorno della semifinale di Champions League dopo aver sconfitto i blaugrana all’andata per 3-1. Una prova di carattere, orgoglio e rabbia della formazione milanese che, al rapido gol di Pedro, rispose con le reti di Sneijder, Maicon e Milito. Otto giorni dopo, era il momento di difendere quel punteggio come se si trattasse della cosa più preziosa che avessero, della loro stessa vita.
Il Barcellona di Guardiola è pronto a compiere la tanto bramata “remuntada”, che gli permetterà di volare a Madrid a giocarsi la Champions League al Santiago Bernabeu. E forse, è anche questo ciò che li spinge a presentarsi con l’artiglieria pesante. Immaginate cosa potrebbe voler dire vincere la Coppa in casa degli odiati rivali.
Lo stadio è strapieno, ottantamila persone che non stanno più nella pelle. E poi c’è lui, il grande ex, il traditore, quello che ha abbandonato Milano, i suoi vecchi compagni, il suo allenatore per vincere la Champions. Zlatan Ibrahimovic. Curioso come ora anche la sua ex squadra sia così vicina a quel sogno.
L’Inter di Mourinho si è preparata ad una gara di sofferenza. Ha già messo in conto che quei 90 minuti, non dureranno solo 90 minuti. Il tecnico portoghese sorprende tutti e schiera un classico catenaccio all’italiana. Una barricata. E, contro ogni pronostico, sembra funzionare alla perfezione. Il Barcellona fa girare la palla, ma c’è qualcosa che incastra il meccanismo, come se mancasse dell’olio. Continua a scontrarsi contro una scivolata, una copertura, uno stop. Un muro. Poi, però, al 27’ arriva il plot twist che nessuno si aspetta.
Un contrasto a centrocampo, Thiago Motta, già ammonito, allarga il braccio appoggiandolo sul collo di Busquets. Il pubblico reagisce e lo fa con un boato di protesta. Il centrocampista nerazzurro cerca di dimostrare che è innocente, ma la perfetta performance di Busquets, che avrebbe fatto invidia a qualunque attore, convince l’arbitro olandese a estrarre il rosso. A nulla servono proteste o spiegazioni, l’Inter giocherà in dieci per 60’.
La reazione di Mourinho è un cambio di modulo. Passa dal 4-2-3-1 al 4-4-1 e dice a Eto’o e Milito di dimenticarsi del loro ruolo naturale. Tutti dietro, sperando il tempo decida di trascorrere più velocemente possibile. Per forza di cose, così, diventa una partita a senso unico, ad eccezione di qualche tentativo di cavalcata solitaria di Eto’o. L’unico che va vicino al gol è Messi: al 32’ si accentra e fa partire un tiro perfetto. È uno schema e va quasi sempre a segno. Quasi, perché stavolta Julio Cesar si oppone.
Arriva l’intervallo e i cinquemila tifosi interisti possono tirare un sospiro di sollievo, il loro cuore in 45 minuti è stato messo più volte a dura prova.
Eppure, non c’è tempo per riposarsi, per rilassare i nervi. La ripresa arriva fulminea e gli spettatori del Camp Nou si ritrovano ben presto a guardare lo stesso film di quindici minuti prima: il Barcellona fa possesso palla e l’Inter ogni minuto che passa si schiaccia sempre di più. I blaugrana iniziano ad infastidirsi, possibile che non riescano a superare Lucio e Samuel? Così sono costretti a provarci con dei tiri da fuori area che assomigliano tanto ad una piccola sconfitta. Loro che, se potessero entrerebbero sempre in porta con tutto il pallone.
Guardiola fa uscire Ibrahimovic e Busquets e mette dentro Bojan Krkic e Jeffren, mentre Mourinho tira fuori Sneijder e Milito per far entrare Cordoba e Muntari. Ormai gli attaccanti non servono più, le marcature sono saltate e bisogna solo resistere il più possibile, allontanare ripetutamente quella maledetta sfera dalla porta di Julio Cesar.
I tifosi nerazzurri guardano l’orologio: mancano solo dieci minuti. Hanno resistito un’ora e venti, cosa saranno mai dieci minuti?
Al 83’ Piqué decide di andare a fare il centravanti, riceve uno dei tanti palloni che Xavi aveva provato a mettere in mezzo, si gira in maniera elegante e segna. Ora il cielo inizia leggermente ad oscurarsi, però anche il Barcellona appare più stanco, affaticato e provato. D’altronde, sta creando gioco da un’ora, senza risultato. Comincia ad insinuarsi nelle menti degli spagnoli una fastidiosa domanda: “E se non dovessimo farcela?” Il quarto uomo segnala quattro minuti di recupero e la tensione è palpabile sugli spalti. Alcuni non riescono a distogliere lo sguardo, ipnotizzati, mentre altri hanno finito i pop-corn e sperano solo che il film finisca prima possibile. Poi al 92’ per un attimo il sogno diventa incubo, Bojan, solo, davanti a Julio Cesar, mette la palla in rete.
Ecco, è finita. O perlomeno, sembra. Alcuni non fanno in tempo a dire “Eh, ma io lo sapevo che sarebbe andata così” che il gioco si ferma.
Qualcuno ha sentito un fischio dell’arbitro, Yaya Touré ha controllato con la mano. Il gol non è valido e il finale del film, di colpo, cambia sapore.
Finalmente, dopo altri due minuti o due ore, si sentono i tre fischi che fanno partire i i titoli di coda. Mourinho si prende la scena finale e scatta in campo correndo sotto la mini-curva interista con le dita verso il cielo. Per i blaugrana, la “remuntada” è rinviata a data da destinarsi e quell’appuntamento con la storia al Bernabeu non li riguarda più. Ora, riguarda solo undici uomini, o meglio dieci, che hanno preso la forma di un muro invalicabile fermando quel Barcellona campione di tutto.